lunedì 27 ottobre 2014

Questo è il tempo


Laura Venturi 

La storia politica è prima di tutto la storia di un’idea che nasce e si incarna, si confronta, combatte, si arricchisce e si precisa nel contrasto ma cresce e, anche se sconfitta, riprende la sua strada, ritorna e vince quando ha diritto di vincere per il consenso che matura e per la speranza che suscita. Mino Martinazzoli (1931-2011)
Il partito che vorrei è il partito che ho scelto come comunità di appartenenza, come luogo all’interno del quale confrontarmi, discutere, elaborare idee, prendere decisioni e assumere responsabilità.
Scegliere di appartenere ad un partito, e farlo a quarant’anni da “nativa democratica”, mi ha fatto capire fin dal primo giorno l’importanza di mantenere i piedi nel presente, lo sguardo proiettato al futuro ma il pensiero ben ancorato e consapevole del passato.
Esigenza molto difficile da realizzare in un partito che invece di fare sintesi delle passate esperienza le ha troppo spesso usate come trincee dietro le quali perpetrare antiche battaglie e mai sopiti rancori.
Eppure la vera sfida è rappresentata proprio dalla fusione delle diverse esperienze, conoscenze e percorsi per raggiungere un pensiero che sia contemporaneamente attuale ed innovativo ma anche portatore di un vissuto profondo.
Una fusione “calda” rispetto alla troppo spesso citata “fusione a freddo” avvenuta nel PD: una sintesi che vive e si nutre sulle storie personali delle donne e degli uomini che sono ancora disposti a investire un pezzo della loro vita e a mettere a disposizione un po’ del loro tempo per la costruzione di un progetto comune.
I partiti che hanno fatto la storia del nostro paese, e che hanno segnato la vita anche di coloro che non vi aderivano, erano a forte connotazione identitaria, non tanto e non solo rispetto ai leader ma rispetto alle idee e alla visione che portavano con sé.
Erano partiti che nascevano da un’idea di comunità di appartenenza anche se spesso gli iscritti erano rinchiusi in una visione del mondo fortemente caratterizzata dalla contrapposizione tra “noi” e “loro”.
Ricordo da bambina lo zio Primo (“primo” perché nato l’1 gennaio 1932), operaio, comunista, ateo come l’esempio di un “nemico-buono” il cui essere comunista non era solo una scelta ragionata ma un percorso naturale di appartenenza.
Questa visione di un mondo spezzato tra “noi” e “loro” ha segnato un tempo dominato dalla guerra fredda, da blocchi contrapposti e da un muro che divideva non solo la città di Berlino ma la vita di milioni di donne e di uomini.
Sono passati venticinque anni dalla caduta del muro di Berlino e oltre vent’anni dalla fine del PCI e della DC, e oggi ci interroghiamo sulla “forma partito”, in un dibattito che porta al suo interno due estremi ai quali si colloca, da una parte, il “partito on-line” sul modello pentastellato, di fatto una piattaforma virtuale e, dall’altra, il “partito-ditta”, inteso come comunità di appartenenza e di destino.
In mezzo ci siamo noi, gli iscritti, i simpatizzanti, gli elettori e le tante cittadine e cittadini che sempre più spesso subiscono la tentazione di assistere allo “spettacolo della politica” seduti davanti allo schermo del televisore o del pc, lasciando ad altri l’onere delle scelte e delegando in questo modo la partecipazione attiva agli “eletti”.
Personalmente credo che la politica, intesa come l'arte di governare la società o, per usare le parole impegnative ma illuminanti di Paolo VI, come “la forma più alta della carità”, non possa prescindere dai luoghi, dai volti e dalle voci, dai simboli che servono a dare e a rinforzare il senso di appartenenza.
E soprattutto non possa prescindere dalla partecipazione attiva di donne e degli uomini che insieme si riconoscono in un progetto comune, da una crescita in cui si mescolano l’esperienza e la competenza dei “padri” all’energia e alla voglia di cambiamento dei “figli”, in un percorso di costruzione e condivisione, fatto anche di discussione e di critica ma sempre nel profondo rispetto delle altrui opinioni.
La discussione sulla forma partito non può perciò prescindere dalla necessità di ricominciare a formare e a selezionare classe dirigente, di individuare luoghi, metodi e percorsi per crescere insieme e per far crescere i giovani, con un “passaggio del testimone” dai padri ai figli che veda gli uni, i “padri”, capaci di gesti di umiltà e di responsabilità nel cedere il passo alle nuove generazioni ma che veda gli altri, i “figli”, capaci di far tesoro degli insegnamenti, di apprendere dal passato per elaborare nuove idee sul futuro.
Penso serva, prima ancora di una riflessione sulla forma partito, o meglio parallelamente, una seria riflessione su come creare (o ricreare?) delle vere “scuole di democrazia” nelle quali confrontarsi fuori dai recinti dei talk show, dei tweet e dei “mi piace” per tornare finalmente a discutere di Politica.
Il partito intorno al quale concentrare le nostre riflessioni e i nostri sforzi deve rimettere al centro le iscritte e gli iscritti, valorizzare le loro idee, competenze, esperienze, ascoltare i territori di provenienza e insieme a loro costruire percorsi di rinnovamento profondo che parta dagli ambiti locali per coinvolgere poi tutti i livelli in una ricostruzione dal basso, dalle fondamenta, dalle radici.
Dobbiamo ritrovare il senso di appartenenza a un comune destino se vogliamo contribuire a cambiare davvero l’Italia in modo radicale e profondo. E per fare questo serve una visione al tempo stesso caritatevole ma profondamente laica del bene comune, nel rispetto delle differenze e nella convinzione del diritto di tutti ad avere diritti, ad essere rappresentati e a sentirsi parte di una comunità.
Il partito nel quale desidero continuare a sentirmi a casa lo voglio simile a una quercia, con i rami proiettati verso il cielo, inteso come futuro, ma con le radici ben piantate nel terreno e da questo alimentate.
Conosco la tentazione del “partito-ninfea”, fiore affascinante e profumato, bello quanto però fragile proprio perché privo di profondità, tentazione sempre più strisciante in un tempo nel quale velocità e apparenza sembrano dominare su tutto, ma proprio in questa diversa visione tra superficie e apparenza, e tra radici e appartenenza, ci giochiamo non tanto e non solo l’idea di partito ma la stessa nostra idea di futuro.



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