Laura Venturi
La storia politica è prima di tutto la
storia di un’idea che nasce e si incarna, si confronta, combatte,
si arricchisce e si precisa nel contrasto ma cresce e, anche se
sconfitta, riprende la sua strada, ritorna e vince quando ha diritto
di vincere per il consenso che matura e per la speranza che suscita. Mino Martinazzoli (1931-2011)
Il partito che vorrei è il partito che
ho scelto come comunità di appartenenza, come luogo all’interno
del quale confrontarmi, discutere, elaborare idee, prendere decisioni
e assumere responsabilità.
Scegliere di appartenere ad un partito,
e farlo a quarant’anni da “nativa democratica”, mi ha fatto
capire fin dal primo giorno l’importanza di mantenere i piedi nel
presente, lo sguardo proiettato al futuro ma il pensiero ben ancorato
e consapevole del passato.
Esigenza molto difficile da realizzare
in un partito che invece di fare sintesi delle passate esperienza le
ha troppo spesso usate come trincee dietro le quali perpetrare
antiche battaglie e mai sopiti rancori.
Eppure la vera sfida è rappresentata
proprio dalla fusione delle diverse esperienze, conoscenze e percorsi
per raggiungere un pensiero che sia contemporaneamente attuale ed
innovativo ma anche portatore di un vissuto profondo.
Una fusione “calda” rispetto alla
troppo spesso citata “fusione a freddo” avvenuta nel PD: una
sintesi che vive e si nutre sulle storie personali delle donne e
degli uomini che sono ancora disposti a investire un pezzo della loro
vita e a mettere a disposizione un po’ del loro tempo per la
costruzione di un progetto comune.
I partiti che hanno fatto la storia del
nostro paese, e che hanno segnato la vita anche di coloro che non vi
aderivano, erano a forte connotazione identitaria, non tanto e non
solo rispetto ai leader ma rispetto alle idee e alla visione che
portavano con sé.
Erano partiti che nascevano da un’idea
di comunità di appartenenza anche se spesso gli iscritti erano
rinchiusi in una visione del mondo fortemente caratterizzata dalla
contrapposizione tra “noi” e “loro”.
Ricordo da bambina lo zio Primo
(“primo” perché nato l’1 gennaio 1932), operaio, comunista,
ateo come l’esempio di un “nemico-buono” il cui essere
comunista non era solo una scelta ragionata ma un percorso naturale
di appartenenza.
Questa visione di un mondo spezzato tra
“noi” e “loro” ha segnato un tempo dominato dalla guerra
fredda, da blocchi contrapposti e da un muro che divideva non solo la
città di Berlino ma la vita di milioni di donne e di uomini.
Sono passati venticinque anni dalla
caduta del muro di Berlino e oltre vent’anni dalla fine del PCI e
della DC, e oggi ci interroghiamo sulla “forma partito”, in un
dibattito che porta al suo interno due estremi ai quali si colloca,
da una parte, il “partito on-line” sul modello pentastellato, di
fatto una piattaforma virtuale e, dall’altra, il “partito-ditta”,
inteso come comunità di appartenenza e di destino.
In mezzo ci siamo noi, gli iscritti, i
simpatizzanti, gli elettori e le tante cittadine e cittadini che
sempre più spesso subiscono la tentazione di assistere allo
“spettacolo della politica” seduti davanti allo schermo del
televisore o del pc, lasciando ad altri l’onere delle scelte e
delegando in questo modo la partecipazione attiva agli “eletti”.
Personalmente credo che la politica,
intesa come l'arte di governare la società o, per usare le parole
impegnative ma illuminanti di Paolo VI, come “la forma più alta
della carità”, non possa prescindere dai luoghi, dai volti e dalle
voci, dai simboli che servono a dare e a rinforzare il senso di
appartenenza.
E soprattutto non possa prescindere
dalla partecipazione attiva di donne e degli uomini che insieme si
riconoscono in un progetto comune, da una crescita in cui si
mescolano l’esperienza e la competenza dei “padri” all’energia
e alla voglia di cambiamento dei “figli”, in un percorso di
costruzione e condivisione, fatto anche di discussione e di critica
ma sempre nel profondo rispetto delle altrui opinioni.
La discussione sulla forma partito non
può perciò prescindere dalla necessità di ricominciare a formare e
a selezionare classe dirigente, di individuare luoghi, metodi e
percorsi per crescere insieme e per far crescere i giovani, con un
“passaggio del testimone” dai padri ai figli che veda gli uni, i
“padri”, capaci di gesti di umiltà e di responsabilità nel
cedere il passo alle nuove generazioni ma che veda gli altri, i
“figli”, capaci di far tesoro degli insegnamenti, di apprendere
dal passato per elaborare nuove idee sul futuro.
Penso serva, prima ancora di una
riflessione sulla forma partito, o meglio parallelamente, una seria
riflessione su come creare (o ricreare?) delle vere “scuole di
democrazia” nelle quali confrontarsi fuori dai recinti dei talk
show, dei tweet e dei “mi piace” per tornare finalmente a
discutere di Politica.
Il partito intorno al quale concentrare
le nostre riflessioni e i nostri sforzi deve rimettere al centro le
iscritte e gli iscritti, valorizzare le loro idee, competenze,
esperienze, ascoltare i territori di provenienza e insieme a loro
costruire percorsi di rinnovamento profondo che parta dagli ambiti
locali per coinvolgere poi tutti i livelli in una ricostruzione dal
basso, dalle fondamenta, dalle radici.
Dobbiamo ritrovare il senso di
appartenenza a un comune destino se vogliamo contribuire a cambiare
davvero l’Italia in modo radicale e profondo. E per fare questo
serve una visione al tempo stesso caritatevole ma profondamente laica
del bene comune, nel rispetto delle differenze e nella convinzione
del diritto di tutti ad avere diritti, ad essere rappresentati e a
sentirsi parte di una comunità.
Il partito nel
quale desidero continuare a sentirmi a casa lo voglio simile a una
quercia, con i rami proiettati verso il cielo, inteso come futuro, ma
con le radici ben piantate nel terreno e da questo alimentate.
Conosco la tentazione del
“partito-ninfea”, fiore affascinante e profumato, bello quanto
però fragile proprio perché privo di profondità, tentazione sempre
più strisciante in un tempo nel quale velocità e apparenza sembrano
dominare su tutto, ma proprio in questa diversa visione tra
superficie e apparenza, e tra radici e appartenenza, ci giochiamo non
tanto e non solo l’idea di partito ma la stessa nostra idea di
futuro.
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