martedì 14 ottobre 2014

Chi ha vinto la guerra di Gaza

Lorenzo Biondi 
Europa  
A cinquanta giorni dalla tregua tra Israele e Hamas, un ebook di “Europa” traccia il primo bilancio politico di uno scontro che ha fatto oltre duemila morti
Pubblichiamo un estratto dall’ebook La terza guerra di Gaza. Dal patto tra Hamas e Fatah alla sconfitta diplomatica di Israele, il primo libro che ricostruisce per intero la vicenda del conflitto della scorsa estate.

La guerra di Gaza si chiude il 26 agosto, lo scontro diplomatico è ancora aperto. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu sa bene di essere uscito sconfitto dal confronto politico coi palestinesi. Voleva ristabilire la situazione precedente il 23 aprile, data dell’accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah, le due principali fazioni palestinesi. Invece quel patto è ancora in piedi e per di più Israele ha dovuto accordare, firmando la tregua con Hamas, un buon numero di concessioni alla leadership di Gaza. Il premier israeliano deve recuperare credito con l’opinione pubblica, specie verso destra.
Non si spiegherebbe, altrimenti, la decisione israeliana del 31 agosto – appena quattro giorni dopo l’armistizio – di annunciare la più grossa acquisizione di territorio cisgiordano in trent’anni. La risposta della comunità internazionale – Stati Uniti in testa – è dura: «Siamo molto preoccupati, chiediamo al governo di Israele di tornare sui suoi passi», dice il dipartimento di Stato.
La_terza_guerra_di_Gaza_coverMa la logica di Netanyahu è tutta domestica. È stato lui a portare Israele in guerra. Non ha esitato ad attribuire ad Hamas la colpa della tragedia dei tre ragazzi uccisi – nonostante i dubbi delle stesse forze di sicurezza israeliane – e a trarne le conseguenze. Ha scelto la via dell’attacco di terra, dopo il primo fallimento dei negoziati in Egitto. Da quel momento in poi, però, ha anche esercitato una funzione “moderatrice” rispetto all’ala destra del suo governo. Netanyahu non ha trasformato l’attacco di terra in una nuova occupazione militare della Striscia. Ha limitato l’obiettivo della guerra alla distruzione dei tunnel e poi alla “decapitazione” dei vertici di Hamas, evitando di fissare l’asticella più in alto: non ha provato a «sradicare Hamas da Gaza», come gli chiedevano i falchi Avigdor Lieberman e Naftali Bennett.
Una richiesta popolare in Israele, almeno secondo i sondaggi. Le rilevazioni di fine agosto mostrano l’ascesa dei partiti di estrema destra, in particolare la Patria ebraica di Bennett. Il gradimento di Netanyahu, cresciuto durante la guerra, scende invece al di sotto dei livelli pre-bellici. Ma il suo partito, il Likud, tiene: perde a destra e recupera verso il centro-sinistra. L’elettorato israeliano moderato sembra avere ben chiaro qual è stato il ruolo del premier nelle ultime settimane. Ora però Netanyahu ha bisogno di riacciuffare il consenso ceduto ai nazionalisti, e riparte dagli insediamenti. (…)
Ma anche nel conflitto tra le diverse componenti del suo governo, Netanyahu traccia un solco rispetto al passato recente: la terza guerra di Gaza è conclusa, il confronto militare con Hamas – almeno per il momento – è archiviato. Il 20 settembre il governo egiziano fa sapere che i primi colloqui “indiretti” tra israeliani e palestinesi, per rendere definitiva la tregua a Gaza, sono stati fissati per il martedì successivo, il 23, al Cairo. All’alba di quel giorno le forze di sicurezza di Israele uccidono Marwan Qawasmeh e Amer Abu Aisha, i presunti colpevoli dell’omicidio dei tre ragazzi israeliani, dopo aver tenuto sotto osservazione per una settimana l’edificio di Hebron dove si nascondevano. La vicenda dei tre studenti ammazzati – usata come casus belli dal governo Netanyahu – è conclusa. Qualche ora dopo, in Egitto, hanno inizio i negoziati.
L’interlocutore, il governo palestinese di unità nazionale, ha attraversato tensioni simili a quelle dell’esecutivo israeliano. La guerra ha rafforzato il patto Hamas-Fatah, e questa è la principale sconfitta di Netanyahu. Ma le prime settimane di pace mostrano che la tenuta di quell’accordo è tutt’altro che scontata. (…) La questione più spinosa è legata all’amministrazione della Striscia. Nell’immediato Hamas non lascia entrare a Gaza il personale dell’Autorità palestinese. Non apriremo le porte, dicono dal movimento islamista, finché non si troverà il modo di ricominciare a pagare gli stipendi ai nostri dipendenti pubblici. (…)
Gli attriti si stemperano quando la leadership di Gaza comincia a incassare i “dividendi di guerra”. L’accordo con Israele prevede che si inizi a provvedere alla ricostruzione della Striscia. Il 16 settembre Robert Serry, inviato speciale dell’Onu per il Medio Oriente, annuncia che è stata raggiunta un’intesa preliminare tra israeliani e palestinesi per l’ingresso a Gaza dei materiali edili necessari. (E domenica scorsa si è svolta anche la prevista conferenza dei donatori che finanzieranno i lavori, ndr).
Il 25 settembre, un mese meno un giorno dalla fine della guerra, arriva il passo decisivo. Il teatro è ancora il Cairo. I delegati di Hamas e Fatah firmano un accordo che stabilisce la restituzione di Gaza al controllo dell’Autorità palestinese. I valichi di frontiera con Israele e con l’Egitto saranno dati in gestione a tremila poliziotti della Palestina unita, con la collaborazione dell’Onu; gli stipendi dei dipendenti pubblici di Gaza verranno pagati per il tramite di una organizzazione internazionale ancora da definire. Se l’accordo verrà rispettato sarà la conclusione della guerra civile palestinese, a sette anni dal suo inizio.
Il giorno successivo, trigesimo della tregua, Abbas parla all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, come presidente del riunificato Stato di Palestina. È un discorso durissimo nei toni: usa il termine «genocidio», tornando a evocare (implicitamente) lo spettro di una denuncia di Israele davanti al Tribunale penale internazionale. Ma la strategia di fondo è la stessa del mese di aprile, quando i negoziati di pace erano entrati in una fase di stallo.
Abbas vuole che Israele riconosca lo Stato di Palestina, al termine di una trattativa sui suoi confini e in cambio del riconoscimento reciproco. Dopo il blocco del processo di pace e la guerra a Gaza, però, il presidente palestinese si prepara ad avviare una nuova fase. Ha già usato l’accordo con Hamas e la richiesta di adesione alle organizzazioni legate all’Onu come strumenti di pressione. Ora ne aggiunge un altro: annuncia che sottoporrà al Consiglio di sicurezza una nuova risoluzione sul conflitto israelo-palestinese. Il documento dovrà sostenere ancora una volta la soluzione dei due Stati, ma «con una tabella di marcia precisa per l’implementazione». Questa risoluzione «sarà legata all’immediato riavvio dei negoziati tra Palestina e Israele per delimitare i confini, raggiungere un accordo dettagliato e ampio, e scrivere la bozza di un trattato di pace tra i due Stati».
È una strategia conflittuale, quella di Abbas. Mosse unilaterali, quando i colloqui bilaterali non procedono. È la stessa strategia che lo ha portato all’accordo con Hamas. Netanyahu ha provato a usare la guerra per abbattere quell’accordo, senza riuscirci. La riunificazione di Gaza e Cisgiordania procede. E allora il presidente palestinese insiste. Se Israele rifiuta di sedersi a un tavolo per disegnare la frontiera dei due Stati, la Palestina prova a forzare la mano facendo ricorso all’Onu.
Non è detto che ci riesca. Un atteggiamento di sfida da parte dei palestinesi può rafforzare la destra israeliana, che chiede di interrompere qualsiasi dialogo tra le parti. Gli Stati Uniti hanno subito condannato i toni aggressivi del discorso di Abbas. Ma Washington potrebbe anche trarre beneficio dalla mossa del presidente palestinese: «Disegnare una mappa dei confini (dei due stati) dovrebbe essere il primo passo», diceva l’America a maggio, dopo l’interruzione dei negoziati. La minaccia di un’azione dell’Onu può essere uno strumento in più per far pressione nei confronti di Netanyahu. E lui, Bibi il pragmatico, accetterà mai di mettere la sua firma sull’atto fondativo dello Stato di Palestina?

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