mercoledì 22 ottobre 2014

Da Apple e Facebook: nuove pratiche di conciliazione (im)possibile


Vera Lomazzi
 
Facebook e Apple propongono di pagare il congelamento degli ovuli delle dipendenti. La notizia ha fatto scalpore, suscitando nella maggioranza dei casi giudizi negativi. La proposta, dipinta come benefit, rischia in realtà di riprodurre la disparità tra uomini e donne (e tra donne) e interroga su questioni fondamentali come la concezione di persona e del rapporto con il lavoro, opzioni culturali che hanno anche una rilevanza politica.
La Silicon Valley, dove queste aziende risiedono, è piuttosto nota per essere un contesto prevalentemente maschile (gli uomini rappresentano l’86%) e tendenzialmente discriminatorio nei confronti delle donne. Il pagamento del congelamento degli ovuli rientrerebbe nella strategia di attrarre le eccellenze femminili che, secondo questo piano, potrebbero rimandare la maternità in seguito, cioè quando abbiano raggiunto gli obiettivi di carriera. E diciamolo, di produttività.
È opportuno precisare che il benefit in questione non è l’unico offerto. Per esempio, Facebook offre ai neogenitori (uomini e donne) 4.000 dollari, oltre a 4 mesi di permesso di genitorialità e il rimborso per alcune spese, tra cui anche quelle relative all’adozione. Il direttore operativo di Facebook è Sheryl Sandberg, una delle poche donne in ruoli di comando in questo settore, riferimento per l’empowerment femminile, che ha sempre valorizzato il suo essere madre, oltre alla realizzazione lavorativa. Il suo best seller “Lean it” e i suoi discorsi sul ruolo delle donne nella società sono fonte di ispirazione per molte donne, soprattutto nel contesto americano. È difficile collegare la pratica discussa con questo scenario e se queste aziende leader stessero gettando le basi per un orientamento condiviso delle politiche aziendali e del modo di concepire l’equilibrio da famiglia e lavoro, vorrei mettere a fuoco due aspetti, tra i molti, che questo “benefit” pone a tema.
Innanzitutto interroga sul rapporto tra persona e lavoro: l’esperienza lavorativa fa parte della vita delle persone o la vita delle persone fa parte del lavoro? Non so se si tratti realmente di un benefit per le lavoratrici, ma senza dubbio lo è per le aziende. Sono sempre più numerosi gli studi che dimostrano i vantaggi economici del diversity management ed è comprensibile che anche nella Silicon Valley si voglia valorizzare il capitale femminile che altrimenti rischia di essere sprecato perché inespresso. Cinicamente si potrebbe dire che in questo modo le aziende possono sfruttare a pieno queste risorse allontanando il “problema” della maternità. Le lavoratrici in questa prospettiva sono soltanto “forza lavoro” inglobata nel processo produttivo e l’azienda invade quello riproduttivo.
L’altra questione riguarda la privatizzazione dell’equilibrio tra vita familiare e vita lavorativa e le sue conseguenze sulla (dis)parità tra uomini e donne. Katherine Rushtorn ritiene che questa proposta sia in grado di “aiutare le donne nel gestire le proprie carriere e famiglie”. Credo che la giornalista sbagli ad utilizzare il verbo “to manage” (gestire), perché la gestione prevede che si fronteggino più cose contemporaneamente, mentre qui si spazza la scena rimandando la maternità e lasciando solo il lavoro. Ma la questione è soprattutto un’altra. Questa non è affatto una buona prassi per il supporto all’empowerment femminile, ma l’ennesimo ricatto alle lavoratrici. Cosa accade alle donne che non perseguiranno questa strada? Avranno le stesse opportunità delle altre? Che tipo di competizione e nuove forme di segregazioni si svilupperanno? Oltretutto, ancora una volta, il conciliare famiglia e lavoro sembra essere solo una questione femminile. Forse i 20.000 dollari per il congelamento degli ovuli potrebbero essere investiti per creare un contesto realmente paritario per lavoratori e lavoratrici.
Queste aziende ci comunicano anche una prospettiva: famiglia e lavoro non sono conciliabili, bisogna segmentare la propria esistenza. Bisogna scegliere: o l’una o l’altro. E ovviamente chi deve procrastinare, ricalcando gli stereotipi delle donne in carriera, vivendo le pressioni tra la richiesta di efficientismo aziendale e i giudizi negativi dovuti all’aver dato priorità al lavoro, sono le donne, non gli uomini. Questa singola pratica quindi non riduce la disparità, ma massimizza unicamente le performance lavorative. Chi ritiene che sia sufficiente allinearsi ai parametri di un sistema economico monogenere per promuovere parità fa un torto al concetto stesso di parità, che è inclusivo, multidimensionale e che trascende la sfera lavorativa.
Ho usato il termine “conciliazione”, come si fa spesso. Sbagliando. È un termine che presume un conflitto pre-esistente, come se si dovesse far andare d’accordo due cose che naturalmente non sarebbero, appunto, conciliabili. Invece, famiglia e lavoro fanno parte da sempre dell’esperienza umana, sebbene con il contributo dell’economica capitalista, queste due sfere fondamentali dell’esistenza si siano allontanate. Credo che il termine più corretto da usare sia ri-conciliazione. Le parole sono importanti e rivelano anche quale concezione antropologica di riferimento si assume. E, di conseguenza, come si intende orientare lo sviluppo della società.
Il caso dei colossi della Silicon Valley ci dice anche quanto il tema della ri-conciliazione sia relegato alla sfera privata. Del resto in America solo lo 0,7% del PIL viene speso per benefit alle famiglie con figli (la media europea è del 2,2%). Il welfare aziendale è senza dubbio un elemento fondamentale, anche nella prospettiva del welfare plurale, e indica la consapevolezza dell’azienda che contribuire a rendere più facile la gestione dei tempi e promuovere la valorizzazione del diversity rappresentano benefit per tutti.
La questione è: spetta unicamente (o prevalentemente) al privato occuparsene? Non credo.
Se la scelta procreativa è una questione estremamente domestica, la gestione di ciò che è una questione sociale, è una partita pubblica. E la ri-conciliazione tra famiglia e lavoro riguarda la qualità della vita di tutti (uomini, donne, bambini, anziani) e ha effetti economici positivi: è quindi una questione di cui soprattutto il pubblico dovrebbe farsi carico. Invece, è un tema che la politica italiana non ha ancora affrontato seriamente, senza preoccuparsi di stabilire riforme sociali vere, segno di una strategia integrata capace di coniugare occupazione (femminile e maschile) e genitorialità.

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