sabato 11 ottobre 2014

PERCHÉ IL JOBS ACT MI HA CONVINTO


ALEXANDER STILLE
La Repubblica11/10/14

Il parlamento italiano affronta un voto di fiducia sulla proposta di legge di Matteo Renzi, il cosiddetto “Jobs act” che va verso l’abrogazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori rendendo il licenziamento molto più facile per le imprese. Nelle ultime settimane, da quando Renzi ha proposto tale cambiamento, ho molto riflettuto se appoggiarlo o meno. Le considerazioni sono diverse: da un parte, come americano che ha vissuto in Italia, mi ha sempre colpito la relativa poca flessibilità del mercato del lavoro italiano. Il fatto che, spesso, licenziare l’impiegato è più difficile che divorziare, anche se le cose, negli ultimi anni, stanno lentamente cambiando. Il mondo del lavoro in Italia è divaricato tra quelli che hanno un posto sicuro e che difficilmente possono essere mandati a casa e un numero crescente di giovani precari che vivono di contratto in contratto con circa 1000 euro al mese. Sta di fatto che i paesi che più “proteggono” il posto di lavoro, l’Italia e la Francia, hanno tassi di disoccupazione più alti. Troppo spesso la sinistra della sinistra, dicendo di voler proteggere i “deboli,” ha invece protetto i protetti.
Basta pensare alla battaglia di Bertinotti in favore delle cosiddette “baby pensions,” che hanno favorito il pensionamento anticipato di centinaia di migliaia di lavoratori ancora giovani. A causa di questo provvedimento gli attuali lavoratori dovranno mantenere per sempre circa mezzo milione di persone che sono andate in pensione prima dei 45 anni — una profonda ingiustizia per i giovani. Una parte della sinistra in Italia, come in Francia, ha una concezione profondamente conservatrice del mondo e dell’economia. Ha un’idea statica dell’economia, pensa cioè che ci sia un numero fisso di “posti” che bisogna difendere a spada tratta. In Francia per esempio, la sinistra ha creato la settimana di lavoro di 35 ore, pensando che limitare il numero di ore avrebbe creato lavoro per i disoccupati. Invece, la disoccupazione in Francia è aumentata.
Inoltre mi viene da pensare che questa riforma possa essere un’altra tappa nel camino trionfante del neoliberalismo in cui la posizione di chi lavora è sempre più debole e più alla mercè di un mercato spietato. Penso, per esempio, allo sciopero dei controllori dei voli americani stroncato brutalmente dal presidente americano Ronald Reagan che ha dato il via a un ciclo di de-sindacalizzazione e a un graduale impoverimento dello stipendio medio negli Stati Uniti.
Alcuni economisti sostengono che la nuova legge di Renzi peggiorerà quello che lui ha chiamato l’apartheid del mondo del lavoro. Siccome la legge di Renzi riguarda soprattutto i nuovi assunti c’è chi sostiene che estenderebbe ancora di più la zona di precarietà senza toccare la massa dei lavoratori già assunti.
Entrambi i rischi sono comunque alti.
Ma in realtà, forse sarebbe meglio non dover scegliere tra due concezioni opposte, tra il bianco e il nero, tra lo status-quo italiano e il capitalismo selvaggio americano. Molti altri paesi europei, soprattutto i paesi scandinavi, hanno reso più flessibile il mercato del lavoro, hanno tasse di disoccupazione più basse, e hanno mantenuto uno stato sociale degno.
La determinazione di Renzi nel spingere la sua legge senza troppi compromessi deriva, credo, dalla sua convinzione che bisogna in qualche modo dare una smossa all’economia italiana e forse ancora di più al sistema italiano.
Alla fine di queste riflessioni ho deciso anch’io di schierarmi a favore della riforma. Se passa la nuova legge non so esattamente cosa succederà o se le cose in Italia miglioreranno. Ma so piuttosto bene cosa succederà se non passa: niente. L’Italia resterà nell’immobilismo che la paralizza da vent'anni.



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