sabato 13 settembre 2014

Travaglio, la giustizia è un’altra cosa

Stefano Menichini 
Europa  

Non c'è bisogno di essere berlusconiani per vedere la necessità di tornare a distinguere tra sospetti e condanne, tra reati e reati, mentre c'è chi gioca sulla confusione. Anche in Emilia Romagna
Sicuramente si può provare a discutere con Marco Travaglio, anche se lui considera Europa «un giornale clandestino». Su questa definizione (non so su altro) la pensa come Massimo D’Alema, ma sappiamo per certo che entrambi sono fra i nostri lettori fedeli. Così come si può discutere con tanti che sulla rete hanno commentato sbrigativamente la nostra posizione sull’inchiesta emiliana “spese pazze” assimilandola agli attacchi lanciati per anni contro la magistratura da Berlusconi e dai suoi giornali.
Ci sarebbero tanti piani possibili del discorso, a partire dalla considerazione che il ceto politico ha fatto in generale di tutto per meritarsi discredito presso i cittadini e – in molti casi – la sacrosanta azione di controllo e penalizzazione da parte della giustizia.
Altra considerazione “generale”: tutti dovrebbero condividere la speranza che la politica sia in grado di tornare credibile e di muoversi, governare, amministrare secondo mandato democratico senza sentirsi minacciata o condizionata da poteri di qualsiasi tipo, compreso il potere giudiziario.
Parlando di Bologna, osservazioni critiche si possono fare sui tempi dell’inchiesta, ma nulla a che vedere con i casi di abuso di potere togato, che pure ci sono stati e non pochi. Qui non ci sono pm in cerca di gloria, notorietà e carriera magari politica, come tanti loro colleghi – alcuni assai amici di Travaglio – che hanno fatto un pessimo servizio alla rivendicata indipendenza del ruolo.
Il punto cruciale è questo: diradato il furore della caccia alle streghe, quando sarà possibile in Italia tornare a distinguere secondo logica, ragione e, appunto, giustizia? Cioè a riconoscere non solo l’ovvio (e cioè che ci sono molti gradi di avanzamento di un’inchiesta e non è possibile stroncare l’immagine e il lavoro di nessuno fermandosi al primo sospetto) ma anche ciò che pare ormai indicibile: e cioè che neanche tutte le violazioni del codice sono eguali fra loro e devono avere le stesse conseguenze (come infatti non hanno neanche a termini di legge)?
Insomma, assimilare corruzione e furto alle decine di infrazioni nelle quali può incappare un amministratore nella giungla di norme e di codici che lo circonda va solo a vantaggio dei veri ladri e dei veri corrotti, e sono già abbastanza a destra, a sinistra e al centro mentre di buoni politici e di buoni amministratori non è che ci sia scialo.
A chi fa comodo, se all’interno della stessa inchiesta bolognese fanno il medesimo scandalo i duecento euro spesi ogni mese da Stefano Bonaccini per mangiare e viaggiare, e i 480 euro spesi dal suo collega del Pdl per comprare un gioiello o dal capogruppo del Pd per una singola cena alla Rosetta?
L’esempio non è scelto a caso, perché l’impaginazione di ieri del Fatto era costruita appunto per confondere i casi più indifendibili con le figure di Bonaccini e Richetti.
Chiaro che siamo a un’operazione politica, che con la giustizia non c’entra più nulla. E che rischia di costruire altri casi Boni. Già, perché c’è stato chi ha assimilato le nostre tesi sull’Emilia Romagna a quelle di Formigoni quando nella tormenta finì la sua Lombardia. E allora, anche per cancellare il sospetto di doppiopesismo, vale la pena citare un solo caso fra molti possibili: quello di Davide Boni, presidente leghista del consiglio lombardo, trascinato per due anni in un’accusa di corruzione che gli è costata dignità e carriera politica prima che i magistrati riconoscessero che contro di lui non c’era nulla: archivizione prima del rinvio a giudizio.
Siccome di questo esito nell’archivio del Fatto non c’è traccia, a Travaglio toccherà sopportare che qualcun altro, sia pure dalla clandestinità come Europa, faccia distinguo e avanzi dei dubbi in funzione preventiva. Con il suo permesso, ma anche no, e senza paura di confusione col berlusconismo perché per fortuna da queste parti il garantismo lo coltiviamo da quando era una bella e forte parola di sinistra.

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