venerdì 26 settembre 2014

Renzi e l’inglese, parla come governa

Fabrizio Rondolino 
Europa  

Il premier si lancia, si butta, ci prova. Ci mette la faccia, come ama dire, e ha l’imprudenza e l’impudenza di chi non si cura delle strizzatine d’occhio altrui perché ha cose più importanti da fare
L’inglese di Matteo Renzi è diventato il tormentone di fine estate: sulla rete pullulano prese in giro e fotomontaggi, “traduzioni” splendidamente incomprensibli dei suoi discorsi americani e sberleffi feroci. Persino Michele Santoro, fra i tanti temi a disposizione per inaugurare la nuova stagione di Servizio pubblico, ha preferito all’articolo 18 o alla trattativa stato-mafia l’ironia sulle competenze linguistiche del nostro presidente del Consiglio.
Il rapporto fra gli italiani e l’inglese è complesso: non lo parla praticamente nessuno, pochi lo capiscono, e tuttavia non c’è insegna di negozio o cartellone pubblicitario o titolo di film che non ricorra a parole o espressioni che dell’inglese vorrebbero avere, se non il vocabolario o la sintassi, quantomeno il sapore.
Siamo talmente provinciali da ricorrere compulsivamente e a casaccio ad una lingua che non conosciamo, nel tentativo di essere cool, ma nello stesso tempo inorridiamo agli strafalcioni altrui inforcando gli occhialini di un professore di Oxford.
Quello che i nostri provinciali non sanno è che l’inglese non esiste. Esiste il Queen’s English – che è una via di mezzo fra una lingua morta e un elegante gioco di società – e poi esistono i mille inglesi parlati in decine e decine di paesi passati attraverso l’amministrazione di Londra.
E chiunque sia stato in America anche soltanto per un quarto d’ora, sa che laggiù l’inglese ognuno lo parla e lo pronuncia come gli pare: gli afroamericani, gli orientali, i latinos, i polacchi, i pakistani, gli italiani e tutti gli altri popoli che vivono e prosperano negli Stati Uniti si sono impadroniti dell’inglese ciascuno a modo proprio: usandolo ogni giorno lo deformano, e lo possono usare proprio perché lo possono deformare a piacimento.
La forza straordinaria della lingua inglese non sta soltanto nella sua disarmante semplicità strutturale, ma anche nella variabilità pressoché infinita delle forme di pronuncia: e il risultato è che tutto il mondo parla inglese, ma ognuno parla un “suo” inglese. Qualche volta non ci si capisce, quasi sempre invece sì. L’importante è parlarlo – proprio come ha fatto Matteo Renzi (gli americani faticano a concepire che qualcuno non sappia l’inglese, ma non si curano minimamente degli strafalcioni dell’interlocutore).
Nella performance del nostro presidente del consiglio c’è però qualcosa di più, qualcosa di specificamente renziano. Renzi parla inglese come governa. Si lancia, si butta, ci prova. Ci mette la faccia, come ama dire, e ha l’imprudenza e l’impudenza di chi non si cura delle strizzatine d’occhio altrui perché ha cose più importanti da fare.
Renzi non è un velleitario: è anzi estremamente realista (e forse per questo spiazza ogni volta avversari e commentatori). Ma si fa guidare, caparbiamente, dall’ottimismo della volontà: cioè dalla convinzione che si comincia a raggiungere un risultato soltanto quando ci si convince di poterlo raggiungere, che il merito conta più del metodo, che lamentarsi è un altro modo per conservare l’esistente, e che la perfezione – il dio che governa il pessimismo della ragione – non è di questo mondo.
I professionisti della tartina parlano un inglese impeccabile: Renzi invece si arrangia come può, come quei bambini che si abbandonano a monologhi senza fine molto prima di aver imparato a parlare, e in questo modo non comunica soltanto i contenuti di un discorso, ma anche, e forse soprattutto, la volontà di non fermarsi davanti a nessun ostacolo – inclusi i propri limiti. Parafrasando un recente, famosissimo editoriale si potrebbe dunque concludere che Renzi è il miglior amico di se stesso.

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