lunedì 8 settembre 2014

Paolo VI e l'alto profilo della politica


Corriere della Sera  07/09/14

Il cuore cattolico della Leonessa d’Italia si accendeva quando si parlava della «questione romana». Non solo si appassionava, ma si divideva sulle posizioni da tenere nei confronti dello Stato unitario. Fermo restando l’allineamento al divieto di partecipare alla vita politica, alcuni, pensando ad un passato da riparare o da ricuperare, restavano ligi alla formula di protesta: «Né elettori, né eletti», mentre altri, guardando ad un futuro diverso, a un «dopo», proponevano la formula: «Preparazione nell’astensione». Giovanni Battista Montini aveva respirato in casa il vento che spingeva verso il futuro, che implicava una seria preparazione al «dopo», sentito come inevitabile dalla corrente che si rifaceva a Pietro Capretti e Geremia Bonomelli. Una volta giunto a Roma, da Assistente della Fuci, il giovane prete bresciano imboccò immediatamente il cammino della preparazione al «dopo», questa volta al «dopo» la fine del regime fascista, rivolgendosi a quei giovani i quali, per non essersi piegati, erano obbligati ad astenersi dalla politica. Alcuni dei più qualificati estensori della Costituzione Italiana e degli uomini di governo della Ricostruzione sono figli di questo programma di preparazione, fatto di formazione umana, civile e religiosa che don Giovanni Battista Montini considerava fondamentale, accanto alla preparazione professionale. Della politica aveva una concezione altissima, giungendo a definirla una delle forme più alte della carità, di quella carità che induce e mettere le migliori energie al servizio del bene comune, privilegiando i più poveri. Il suo obiettivo era di formare coscienze cristiane capaci di forte testimonianza anche nella politica. Nella convinzione che per migliorare le politica occorreva innanzitutto migliorare l’uomo politico. E così, accanto alla figura di prete dedito all’ azione politica e sociale, come don Murri e don Sturzo, o quelle di preti organizzatori di cooperative o di promozione dei giovani delle classi più umili, Montini interpreta il ruolo del prete educatore alla fede nel campo politico, il formatore di persone che vanno in politica per mettere a servizio della comunità le proprie ricchezze interiori e le proprie competenze, e non per arricchirsi personalmente. Discorrendo con Jean Guitton, Paolo VI svelerà le radici familiari del suo peculiare sentire politico: «A mio padre devo gli esempi di coraggio, l’urgenza di non arrendersi al male, il giuramento di non preferire mai la vita alle ragioni della vita. Mio padre non aveva paura. L’amore di Dio si traduceva in mio padre nell’azione politica e in mia madre nel silenzio. Una stessa determinazione totale che in mio padre si esprimeva più come forza e in mia madre più come dolcezza. Ma la dolcezza riposa sulla forza». Se la cultura familiare gli aveva dato le motivazioni prime che faranno di lui un formatore di coscienze politiche, il contatto con la «via francese», specialmente con il contestatissimo Maritain e il suo Umanesimo integrale, lo arricchiranno di una modalità originale di incontro tra cristianesimo e democrazia, favorendo anche un diverso protagonismo dei laici. Eletto al Soglio pontificio, non dimenticò il contenuto essenziale del programma «preparazione nell’astensione», dandole una nuova interpretazione e un nuovo contenuto. È lecito pensare che avrebbe preferito vedere le Chiese dell’America Latina dedicare più forze e più impegno alla preparazione al «dopo» l’inevitabile caduta delle dittature militari. Obbligati ad astenersi dall’impegno politico, ricordava loro che era necessario preparare una classe dirigente onesta e competente, socialmente sensibile, se si voleva evitare di cadere nelle braccia dei due Moloch del capitalismo selvaggio o del socialismo reale. Invece che logorarsi solo in una politica di denuncia, ricordava la necessità anche di una politica di proposta. Non fu certamente capito né aiutato dal clima propenso all’utopia, predominante anche in non poche Università dell’Occidente. Nel tempo degli slogan «Tutto è politica» e «La fantasia al potere», ricordò che la politica non è tutto e che non basta lo spontaneismo della fantasia per un serio cambiamento. Nel maggio del 1971, pubblicando la lettera apostolica Octogesima adveniens , si astenne dal proporre un progetto di società cattolica, o di offrire soluzioni concrete ai nuovi problemi, concentrandosi piuttosto sull’importanza di utilizzare nuovi strumenti e nuovi atteggiamenti, che esigevano una preparazione per un efficace discernimento. Paolo VI può essere considerato un grande Papa politico, per il triplice motivo d’aver coltivato e proposto un alto profilo della politica, d’essere stato educatore alle più nobili ed esigenti motivazioni della politica, d’essere riuscito a fare della Chiesa un importante e originale protagonista con influsso sulla politica mondiale, in quanto «esperta in umanità». Riscosse infatti grandi consensi quando all’Onu, parlò della Chiesa come «esperta in umanità». Lavorò senza risparmiarsi per fare della sua polis , la Chiesa, una città umana che riflettesse il più possibile le fattezze della città di Dio, investendovi in prima persona tutto quello che era e tutto quello che aveva ricevuto, soprattutto il suo amore. Per sé non chiese nulla. Gli bastava d’essere stato un costruttore forte e dolce di una polis che fosse sentita e amata come il luogo dove uomini e donne del mondo moderno si trovassero a casa loro. Questo è solo un a spetto della sua poliedrica presenza sullo scacchiere mondiale. Ma non è sufficiente per fare di lui un grande della Politica?

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