sabato 20 settembre 2014

La misericordia che fa rivivere la tradizione.


Corriere della Sera 20/09/14
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Quando papa Francesco ha convocato il Sinodo sulla famiglia sapeva di toccare una questione urticante che avrebbe suscitato un’accesa discussione. Per questo, proprio per cercare di evitare strappi e polemiche, il Papa ha deciso di adottare un metodo molto prudente, prevedendo una prima sessione dedicata all’ascolto e alla riflessione e una seconda, da tenersi a un anno di distanza, dove si formuleranno le conclusioni. Confortato dal potente impatto che il suo pontificato ha avuto a livello mondiale — tanto da modificare di colpo la percezione della stessa Chiesa — Francesco sperava che la necessaria discussione sarebbe stata pacata e tenuta nelle sedi opportune. 

Il fatto che, a pochi giorni dall’apertura del Sinodo, il prefetto per la dottrina della fede, insieme ad altri 4 autorevoli cardinali, abbia deciso di marcare pubblicamente la sua posizione complica la situazione. Come era prevedibile, i media di tutto il mondo si sono scatenati, alimentando gli stereotipi «politici» a cui tutto viene ridotto: di fronte alle aperture «progressiste» del Papa, ecco l’ala «conservatrice» che si compatta e fa sentire la sua voce, ancor prima di iniziare. 

In questo modo, però, chi se ne fa custode mette a rischio la tradizione: ciò che resterà delle polemiche di questi giorni è che nemmeno il dibattito interno alla gerarchia cattolica riesce a evitare l’attrazione fatale esercitata dai media. Per di più rigettando di colpo la Chiesa in quel clima di divisione e contrapposizione che, dopo il trauma delle dimissioni di Benedetto e l’elezione di Francesco, sembrava finalmente superato.

 Al di là della legittima discussione tra chi la pensa in un modo e chi in un altro, il rischio più serio è che le polemiche di questi giorni finiscano per restringere il campo della riflessione sinodale alla pur importante, ma certo non risolutiva, questione della comunione ai divorziati. Nell’indire il Sinodo, l’intenzione del Papa non era dottrinale, ma pastorale. Ciò significa che le questioni poste da Francesco alla Chiesa non riguardano i principi, di continuo riaffermati. E tanto meno, la separazione tra ideali e vita, legge e spirito. Piuttosto è il modo in cui trattare e incarnare quei principi nella vita concreta delle persone e delle comunità a essere messo a tema. Affermare che anche su questo piano esistono leggi e pratiche indiscutibili significa irrigidire la Chiesa cattolica al punto da renderle difficile interloquire con l’esperienza umana contemporanea: mai come oggi, la verità che essa indica può essere riscoperta solo nella vicinanza all’uomo che cerca, dentro un rapporto di fiducia e stima reciproca. 

Il punto è che, nella società contemporanea — basata su individui isolati che si muovono grazie e attraverso sistemi tecnici e apparati formalizzati, i vincoli familiari non reggono più o sono riproposti con caratteristiche del tutto diverse da quelle tradizionali. Lo dimostrano i fatti: il numero di matrimoni si riduce drasticamente, aumentano convivenze e divorzi; ovunque vengono riconosciute forme di unione impensabili fino a qualche anno fa; la procreazione diventa sempre più esterna non solo al matrimonio ma allo stesso atto sessuale. L’effetto combinato delle nuove possibilità tecniche e di un soggettivismo sempre più spinto fa sì che, per la prima volta nella storia occidentale, la famiglia (quella di cui parla la Chiesa, e cioè intergenerazionale e eterosessuale) scopre di non essere più necessaria all’organizzazione sociale. Con una leggerezza sconcertante, la cultura odierna ipotizza di organizzarsi a prescindere dal legame famigliare considerato un vincolo troppo oneroso rispetto alla libertà fluttuante dell’Io-individuo.

 È questa la vera partita che il Sinodo deve affrontare: come è possibile re-inculturare la famiglia —per secoli il cardine della trasmissione della vita e il fondamento dell’identità personale— nel modo di vita contemporaneo? 

Per la verità, non tutto il male vien per nuocere: nella crisi attuale, la famiglia —con il suo carico di legami di sangue, affetti e rancori profondi— ha infatti la possibilità di ripensare il suo senso profondo nei termini di «scuola di alterità» che, mentre colloca ciascuno in modo personale da qualche parte nel mondo, contribuisce a rifondare e riprodurre la nostra umanità. E ciò perché nella famiglia, a differenza di quanto accade nella quasi totalità delle nostre esperienze contemporanee (dove ci abituiamo a disconnetterci, a spostarci, a evitare l’alterità che ci infastidisce e a cercare solo chi ci somiglia), l’altro — con il suo carico di bellezza e di bruttezza — non può essere annullato.

Proprio perché non è più norma sociale, la famiglia contemporanea si scopre fragile e contraddittoria. Per questo, essa ha un enorme bisogno di qualcuno attorno che la aiuti sempre a ritrovarsi e a superare le sue crisi e i suoi patimenti. Come sanno tutte le famiglie che, in un tempo come questo, riescono (anche felicemente) a stare insieme sono l’accoglienza e il perdono gli ingredienti fondamentali per stare con l’altro (genitore anziano, fratello, coniuge, figlio, nipote).

Ed è a questa metamorfosi della famiglia e alle sue peripezie che papa Francesco pensa quando insiste per una Chiesa capace di usare il linguaggio della dolcezza e della misericordia. Non si tratta di annacquare la tradizione, ma di farla rivivere: in un mondo che sprofonda nella solitudine dell’individualismo, a salvare la famiglia non sarà una fredda regolazione ma la concreta esperienza della possibilità di riconoscere e di essere riconosciuti, persino al di là del male che facciamo o che subiamo.

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