martedì 23 settembre 2014

Il segretario non teme i «giapponesi»: libertà di coscienza? 
Non può valere su tutto.


Corriere della Sera del 22/09/14
Maria Teresa Meli

«Ma credete veramente alla storia di più di cento parlamentari che faranno battaglia contro di me sul Jobs act?»: prima di volare per gli Stati Uniti Matteo Renzi si lascia andare a un sorriso con chi esprime un certo timore perché la minoranza è sul piede di guerra. E al Tg2 affida parole più che esplicite: «Dentro il mio partito c’è chi pensa che si possano utilizzare i risultati delle elezioni europee per fare finta che non sia cambiato niente. Si mette lì Renzi come foglia di fico e continuiamo a governare, è questo quello che pensano. Ma sono cascati male».

Già, il presidente del Consiglio non ha voglia di «farsi condizionare dai ricatti» della minoranza. Si può trattare su punti ragionevoli, ma niente di più: l’impianto della legge resta quello e bisogna anche fare in fretta. «Non hanno capito con chi hanno a che fare», mormora Renzi prima di salire sull’aereo. Del resto, ribadisce, «tutti quei voti li ho presi io, e li ho presi per cambiare, non per lasciare le cose come stanno, sennò era del tutto inutile che andassi io al governo».

Il solco, quindi, è tracciato. E l’agitazione della minoranza non sembra fare troppa paura al premier come dimostrano quelle parole profferite pubblicamente in un’intervista al Tg2. Altrimenti, avrebbe scelto altri canali per far filtrare il suo disappunto. Invece, la lettera aperta agli iscritti prima, e quella apparizione in tv poi, stanno a testimoniare del modo in cui il presidente del Consiglio intende affrontare la Direzione del 29 settembre prossimo dove, sia detto per inciso, ha la maggioranza.

Lo schema che il premier intende seguire è lo stesso adottato con la legge elettorale e con il ddl costituzionale sul Senato e il Titolo V della Carta fondamentale: prima un voto in una riunione di Direzione, poi un voto nei gruppi parlamentari. Dopodiché «la democrazia interna di un partito ha delle regole e non può esistere la libertà di coscienza su tutto». Il che non significa certo che il premier-segretario minaccia espulsioni, ma che si richiama alla serietà di chi è iscritto al Pd e lo rappresenta nelle istituzioni. Del resto, chi adesso lo osteggia, lo accusa e lo crocifigge nelle interviste sui giornali, è chi ha portato il Pd ai suoi minimi storici: «È un fatto — commenta con i suoi il presidente del Consiglio — che prima il Partito democratico perdeva e che adesso vince».

La tranquillità con cui Renzi sembra affrontare i travagli interni al Pd sembra data anche da un altro elemento: il premier è convinto che in realtà la minoranza non sia compatta in questa sua guerra contro di lui. Ritiene che alla fine l’avranno vinta il capogruppo alla Camera Roberto Speranza e il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina che rappresentano l’anima dialogante della minoranza. Sono loro i personaggi di maggior calibro in quell’area ed è con loro che si può trattare. I renziani sono convinti che questa fetta del partito non voterà contro in Direzione. Il giro di Pier Luigi Bersani, Cesare Damiano, Stefano Fassina e Pippo Civati può raccogliere gli scontenti. Ma quanti saranno? Al massimo rappresenteranno tra il 15 e il 20 per cento del partito. A dire proprio tanto. Non di più. Perché — è il ragionamento che viene fatto a Palazzo Chigi — a differenza del passato la minoranza dei Fassina, dei Bersani e dei Damiano è in difficoltà dal momento che la Cgil non ha più la forza di una volta e, facendo fronte con quel sindacato, rischia di rinchiudersi in una battaglia residuale. A parte il fatto che la stessa Cgil sta inviando dei segnali all’indirizzo del premier e del Nazareno nella speranza di un incontro e di un chiarimento.

C’è una frase sfuggita qualche giorno fa a Rosy Bindi che viene ritenuta assai significativa dai renziani: «Matteo troverà dei giapponesi pronti a combattere». Dei giapponesi, appunto, come quelli che non si volevano arrendere quando la guerra era già persa.

Dunque non è la rivolta della minoranza che impensierisce il premier, ma l’idea che si fa strada in certi ambienti di picconare il suo governo per aprire la strada a una sorta di Monti bis. «La minaccia delle elezioni non riguarda la minoranza del Pd e non è nemmeno un mio auspicio, è rivolta a chi pensa a ipotesi tecnocratiche», ha confidato il premier ai fedelissimi prima della partenza per gli Usa.




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