martedì 2 settembre 2014

L’ultimo stop segna la fine della carriera di D’Alema

Fabrizio Rondolino 
Europa  

La “rottamazione” della classe dirigente che ha retto il centrosinistra nel ventennio berlusconiano può considerarsi simbolicamente conclusa con il pensionamento della sua personalità più significativa
La nomina di Federica Mogherini ad Alto commissario per la politica estera europea segna nei fatti la conclusione della carriera pubblica di Massimo D’Alema. È infatti assai improbabile che, sfumata questa occasione, altre se ne ripresenteranno in Europa o in Italia. La “rottamazione” della classe dirigente che ha retto il centrosinistra nel ventennio berlusconiano può dunque considerarsi simbolicamente conclusa con il pensionamento della sua personalità più significativa.
Anche la lunga storia del Pci – di cui D’Alema di fatto è stato l’ultimo segretario, sebbene il partito non ci fosse già più – giunge oggi al capolinea, e per dir così si estingue senza lasciare eredi.
La notizia – se così vogliamo chiamarla – è stata ignorata da tutti i media (con la sola eccezione di una vignetta di Giannelli sul Corriere di ieri), e anche questa è una notizia: vuol dire che l’opinione pubblica aveva già preso atto del tramonto quando il sole ancora indugiava rossastro sull’orizzonte, e oggi non ritiene di dover commentare, o anche soltanto registrare, un fatto considerato già compiuto e assimilato.
All’indomani delle sue dimissioni da palazzo Chigi, nell’aprile del 2000, D’Alema aveva cominciato a disegnare per sé un percorso internazionale, a cominciare dal nome della sua nuova Fondazione: un po’ per un’autentica passione che gli veniva direttamente da Berlinguer, e un po’ per tattica, perché tenersi (relativamente) lontani dalla politica interna è il modo più efficace per rientrarvi. Andreotti, per dire, ogni volta che perdeva la presidenza del consiglio si faceva eleggere presidente della commissione esteri della camera.
Naturalmente, D’Alema in questi anni non è stato affatto lontano dagli affari italiani. Anzi: secondo la regola aurea che governava il Pci e i suoi derivati fino a Renzi, il partito era governato da un’oligarchia che poteva dividersi anche con violenza, ma che tuttavia si ritrovava sempre unita nella scelta del leader, ogni volta cooptato dal sinedrio che ne guidava poi l’azione. Di questa oligarchia – ma forse sarebbe meglio parlare di aristocrazia – D’Alema ha sempre fatto parte, giocando in prima persona almeno due partite cruciali: nella primavera del 2006, quando sfiorò il Quirinale, e nell’autunno di tre anni dopo, quando si candidò senza successo alla carica di Mr. Pesc.
Se quest’anno ha riprovato a conquistarsi un posto in Europa – non sappiamo se con l’intenzione di coronare così la sua carriera, o di usare Bruxelles come un trampolino per il Quirinale – è perché D’Alema non si considera affatto un pensionato. Lo ha detto con l’abituale schiettezza in più occasioni, e non basta a smentirlo un banchetto alla sagra di Otricoli. Diversamente da Veltroni, che coltiva altre passioni oltre alla politica (usandole peraltro più o meno come D’Alema usa la politica estera: e vedremo se gli andrà meglio), il presidente di ItalianiEuropei è, per educazione, per formazione e per indole, totus politicus: in altri tempi avremmo detto che è un rivoluzionario di professione.
Si potrà discutere – e non è escluso che l’interessato voglia dire la sua – sulle modalità con cui la seconda candidatura europea di D’Alema è stata presentata, discussa, approvata e poi accantonata: è però facile immaginare che D’Alema si sia impegnato a fondo, e che oggi potrebbe sentirsi non pienamente soddisfatto del rapporto costruito non senza fatica, anche psicologica, con Matteo Renzi.
Dal punto di vista del renzismo, era evidente fin dal primo momento che D’Alema non sarebbe mai diventato il ministro degli esteri della Ue: alfiere del rinnovamento generazionale e della parità di genere, Renzi semplicemente non poteva nominarlo. Ma dal punto di vista di D’Alema le cose stanno in un altro modo: chi siede in quella che un tempo si chiamava “riserva della repubblica” e ha titoli e meriti per una carica di prestigio, di norma la ottiene. Così almeno accadeva nella Prima repubblica – e così, naturalmente, non è stato oggi.
L’ultimo stop a D’Alema, e l’indifferenza con cui è stato accolto, sono il simbolo di una stagione che si chiude. Altri pensionamenti seguiranno e, d’altro canto, avremo ancora molte occasioni per sentire la voce dell’unico comunista italiano divenuto presidente del consiglio: e tuttavia la partita è definitivamente chiusa, e il ciclo cominciato con la caduta del Muro e la “svolta” di Occhetto ha infine concluso il suo corso. Il Pci non c’è più.

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