sabato 20 settembre 2014

L’Italia divisa anche senza referendum

Stefano Menichini 
Europa  

La lezione scozzese per certi aspetti è definitiva: per coltivare grandi ambizioni occorre avere alle spalle una storia nazionale autentica, non fittizia; una strategia di lungo respiro, fatta di alleanze ma anche di rotture e totale autonomia, quella che la Lega non ha mai davvero strappato rispetto a Berlusconi.
Finisce l’ubriacatura scozzese. Non a Glasgow o a Londra, naturalmente, ma in giro per Europa ovunque partiti, partitini e movimenti variamente indipendentisti o separatisti abbiano vissuto due settimane di brividi, gridando ad alta voce che sulla scia degli scozzesi il diritto delle piccole patrie tornava a imporsi dappertutto.
Alla fine, come è giusto, solo i protagonisti autentici della vicenda britannica godranno i frutti del referendum. Chi si batteva per il No, sperando di incassare le grandi promesse fatte da tutti i partiti di Westminster in cambio della conferma dell’Unione. E chi si batteva per il Sì, non solo per l’onore di una bella battaglia ma perché lì tutte le coordinate della politica sono destinate a cambiare.
Tornano a casa (non si sa se da Edimburgo o da Amburgo, vista la confusione di idee dello staff leghista) anche Salvini e Borghezio, che con imbarazzante ritardo e smaccato strumentalismo hanno cercato di rosicchiare un po’ di visibilità cavalcando il nazionalismo altrui.
La lezione scozzese per certi aspetti è definitiva: per coltivare grandi ambizioni occorre avere alle spalle una storia nazionale autentica, non fittizia; una strategia di lungo respiro, fatta di alleanze (il parlamento di Edimburgo nacque quando Snp e Labour lavoravano insieme) ma anche di rotture e totale autonomia, quella che la Lega non ha mai davvero strappato rispetto a Berlusconi.
Infine, ci vuole il consenso vero: Salmond è cresciuto nel tempo da esigua minoranza fino alla maggioranza assoluta dei seggi nel suo parlamento; la Lega ha un quarto dei voti del Pd al Nord ed è il quarto o al massimo il terzo partito anche in Lombardia e in Veneto, dove governa.
Il che non significa che Salvini e i suoi vadano sottovalutati. È vero che il Matteo leghista sia l’unico che a destra mostri una certa vivacità e tenacia, facendogli credere di poter domani essere l’antagonista del Matteo di centrosinistra. I sondaggi danno la Lega in lenta costante crescita, ancora sull’onda del rancore anti europeo e della violenta campagna contro gli immigrati. Chiaro: c’è una tensione dichiarata tra Salvini e Maroni, e al momento di scegliere sulle alleanze i leghisti saranno risucchiati indietro nel loro passato, a trattative poco entusiasmanti con forzisti e alfaniani. Ma il Carroccio può anche sperare di arrivare a quel momento non come la solita ruota di scorta, bensì in una posizione di leadership.
Intendiamoci, stiamo ancora parlando di uno scenario di no-contest: col Pd di Renzi non c’è gara e non ci sarà per un bel po’. Il fantasma della rivolta fiscale, uno degli ingredienti del referendum scozzese, non svanisce però mai una volta per tutte. E sempre lì si torna: va bene la semplificazione, ma finché la vera e propria riduzione delle tasse che è al primo punto del programma di governo non diventerà fatto concreto, ci saranno pezzi d’Italia che si sentiranno derubati e anche senza referendum si consumerà una scissione silenziosa più dolorosa dello scontro tra Yes e No.

Nessun commento:

Posta un commento