martedì 9 settembre 2014

Medio Oriente, quella massa critica che spegne i fuochi

Mario Giro 
Europa  

L’esperienza delle ultime guerre (Balcani, Golfo, Nord Africa, Medio Oriente...) dimostra che gli interventi armati raramente hanno dato buoni risultati, spesso l’azione militare internazionale ha complicato le situazioni rendendole ingestibili e incandescenti. Sono necessarie alleanze ad hoc per ogni scenario
Davanti alla tragica vicenda attuale del Medio Oriente, torna ancora una volta il dilemma: come intervenire? Come usare la forza in caso di gravi violazioni dei diritti umani?
Le dichiarazioni di papa Francesco sono chiare: «È lecito fermare l’aggressore ingiusto». Il papa richiama la necessità di una decisione legittima, non presa da una sola nazione ma negli appropriati fori (Onu) dove ci si deve chiedere «come lo fermiamo?». Questa è la domanda: come intervenire?
L’esperienza delle ultime guerre (Balcani, Golfo, Nord Africa, Medio Oriente…) non è convincente: in rari casi le crisi gestite anche mediante interventi armati hanno dato buoni risultati; in molti altri l’azione militare internazionale ha complicato le situazioni rendendole ingestibili e incandescenti. La stessa crisi attuale dell’Iraq discende dal conflitto del 2003: inefficace e destabilizzante.
L’opinione resta divisa e i leader mondiali sono incerti. Gli appelli di papa Francesco spingono ad esplorare soluzioni praticabili, senza indulgere in qualsiasi “diritto all’indifferenza” ma nemmeno in operazioni che peggiorino la situazione. Il dilemma si ripropone ogni volta: l’arco di crisi che circonda l’Europa non può lasciare nessuno impassibile.
Primo punto, “la politique d’abord”: emerge con chiarezza la necessità di una politica che oggi non esiste ancora. Saltano anche in Vicino Oriente le frontiere della Prima guerra mondiale (così come accadde nei Balcani), si apre una fase di prolungata instabilità, sorgono dei mostri totalitari, i confini si rivelano fragili, si scatenano nazionalismi esacerbati, le minoranze sono oppresse, la convivenza appare impossibile e – soprattutto – la crisi dell’Islam produce nuovi soggetti sempre più violenti ed aggressivi: occorre dunque urgentemente un di più di riflessione della politica internazionale che sia in grado di gestire le crisi.
Se non esiste una “soluzione miracolosa”, come minimo ci si dia un obiettivo a medio termine: distinguere le crisi (anche se vanno considerate globalmente) per trovare sistemazioni temporanee ma efficaci. Il problema è quale sia il luogo di tale condensazione politica: l’Unione europea non è ancora pronta per fare vera politica estera comune; l’Onu può essere bloccata dai veti; le nuove istituzioni degli Stati emergenti sono restie a prendersi responsabilità globali.
Si tratta dunque di costituire “alleanze ad hoc” per ogni scenario, superando pregiudizi e dissensi. In chiaro: se la Russia è una controparte in Ucraina, certamente può essere un associato in Siria, vista la sua influenza sul regime. Oppure: se vogliamo che Aleppo non faccia la fine di Mosul, occorre coinvolgere Iran, Turchia e Stati del Golfo che armano i soggetti più disparati; e così via.
In questo modo la politica riprende la sua funzione non ideologica: essere creativa, proporre soluzioni possibili e ottenere quella massa critica necessaria a spegnere fuochi. In altre parole: politica non per l’immagine o lo schierarsi ma per rendersi utile.
Resta da riflettere sulla risposta delle democrazie occidentali davanti alle crisi. Per noi una politica realmente efficace, per quanto realista deve tener conto dei principi alla base dei nostri ordinamenti: diritti umani e protezione dei deboli. In alcuni casi l’urgenza di intervenire – anche militarmente in funzione di polizia internazionale – è impellente. Questa potrebbe essere la soluzione per l’Iraq di oggi.
Sappiamo bene che il resto del mondo, compresi Brics, Mint, Ibsa o Mist ecc., non ama la nostra dottrina dell’ingerenza umanitaria, considerata uno strumento occidentale di intrusione nella sovranità altrui. Tuttavia anche questi Stati, ormai protagonisti della scena mondiale, sono preoccupati per le devastazioni senza controllo provocate da estremismi e fanatismi di ogni risma. Nel mondo frammentato e multipolare è in atto un contagio virtuale tra culture politiche e religiose, che riguarda tutti. Le nuove potenze temono di pagarne il prezzo, prima o poi.
La democrazia non si esporta, ma possiede una sua forza intrinseca di contaminazione ed emulazione. La non-ingerenza non è sostenibile quando i massacri avvengono sotto i nostri occhi e le vittime ci chiedono aiuto; dal canto suo l’intervento deve essere portatore di una soluzione politica lunga e possedere una qualche forma di legittimità internazionale.
Occorre una nuova condivisa “dottrina dell’intervento” che medi tra esigenze di sovranità e ingerenza umanitaria. Esperti, politici e diplomatici occidentali degli stati maggiormente coinvolti nelle crisi e delle potenze emergenti devono unire i loro sforzi per porre le basi di un’ingerenza legittima e riconosciuta, sulla base di principi comunemente accolti. Oggi serve una nuova Helsinki, non più per evitare lo scontro bipolare e l’olocausto nucleare, ma per affrontare il caos politico della globalizzazione che sotto i nostri occhi moltiplica le stragi degli innocenti.

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