mercoledì 3 settembre 2014


Il Jihadismo Sunnita mostra 
di avere il controllo del territorio: il messaggio è interno all’Islam.


Corriere della Sera 03/09/14

I primi passi dell’Isis hanno riempito giornali e media di tutto il mondo. La sistematica eliminazione delle minoranze di ogni tipo e soprattutto dei cristiani ha risvegliato timori di una pulizia etnica capace di cancellare un mondo dalla storia millenaria. Le decapitazioni, spettacolarizzate, hanno saputo toccare i nervi sensibili di un occidente che rivive i timori del dopo 11 settembre 2001. Eppure ogni mossa, dalla più efferata alle meno evidente, segnata della presenza di questo sedicente nuovo califfato sembra guardare soprattutto alla rivalità infinita tra sunniti e sciiti che proprio nel martoriato territorio iracheno trovano il luogo per eccellenza in cui scontrarsi.

Il dopo Saddam Hussein e l’occupazione americana avevano rinforzato le speranze della maggioranza sciita di poter finalmente ritagliarsi un ruolo politico importante. L’esplosione negli anni dell’occupazione americana del terrorismo settario e poi le politiche poco accorte dei governi a guida sciita non hanno facilitato la pacificazione, anzi hanno accresciuto instabilità e i timori di una frantumazione del Paese. La crescente autonomia del nord curdo aveva ulteriormente ridotto la capacità di controllo dei governi iracheni. E infine è giunto l’Isis, che ha tolto un’altra ampia regione dal controllo centrale e offerto il fianco ai sogni, magari utopici, di un califfato sunnita dichiaratamente anti-sciita.

La controffensiva governativa irachena, aiutata dalla comunità internazionale, e le prime azioni anti-sunnite sul terreno riconquistato sono ora seguite dalla macabra regolarità delle decapitazioni da parte dell’Isis. Decapitazioni che colpiscono ostaggi occidentali come Sotlof o ribelli curdi, ma il cui obiettivo primario è quello di mostrare soprattutto alla controparte sciita che il califfato è in grado di controllare il suo territorio. Cristiani o occidentali sono quindi le vittime di questo macabro rituale ripreso da telecamere e diffuso ovunque, ma musulmani sono i primi destinatari del messaggio: il jihadismo sunnita è in grado di controllare il territorio iracheno e non demorde davanti agli attacchi governativi.

I tre anni seguiti alla fine dei vecchi equilibri regionali dopo le primavere arabe hanno del resto accentuato lo strisciante e mai sopito scontro tra sunniti e sciiti. Sebbene tante e diverse sono le cause dei conflitti, mai come negli avvenimenti degli ultimi mesi il contrasto era diventato scontro aperto. Il jihadismo che si è affermato tra Africa sub-sahariana e Siria e Iraq è ideologicamente vicino al salafismo. E per i salafiti gli sciiti sono considerati alla stregua di eretici, e degni dell’avversione che si riserva ai miscredenti.

Nella lunga storia della Fratellanza Musulmana e del radicalismo islamico i rapporti erano segnati da antipatie e contrasti, raramente da scontri aperti e da conflitti sul campo come sta ormai avvenendo. E l’Iraq, in tale quadro, è il terreno per eccellenza di un conflitto insanabile e che nessuno sembra in grado di ricomporre. E in cui l’occidente rischia di svolgere il ruolo di un terzo incomodo semplicemente usato come bandiera ideologica, come un avversario su cui mostrare la propria inflessibilità. Oggi quel che resta dell’Iraq è una maggioranza sciita, frustrata e lontana dai suoi obiettivi politici, e un califfato forse senza futuro ma con sbandierati propositi di liquidazione di ogni altra presenza: cristiani, yazidi, curdi, turcomanni e anche gli sciiti. È un progetto, quello dell’Isis, certo impossibile da realizzare, ma che rende impossibile anche ogni conciliazione.




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