mercoledì 3 settembre 2014

Il referendum scontato Più autonomia alla regione Lombardia.

Corriere della Sera 03/09/14
di CLAUDIO SCHIRINZI
 
Il presidente Maroni non molla: vuole che la Lombardia diventi una Regione a statuto speciale. Non per sofisticate ragioni istituzionali, ma per una concretissima questione di quattrini. Il nostro modello, spiega, è la Sicilia che trattiene il cento per cento dei tributi raccolti sul suo territorio. L’obiettivo è largamente condivisibile: se la Lombardia tenesse per sé quanto i suoi cittadini pagano, potrebbe offrire servizi pubblici migliori e contemporaneamente ridurre drasticamente la pressione fiscale. Il governatore vuole chiedere direttamente ai lombardi, attraverso un referendum, se sono d’accordo oppure no. La risposta ovviamente è scontata: tutti (o quasi) ne sarebbero ben contenti. Peccato che la questione non sia così semplice. Se lo fosse, tutte le Regioni più ricche seguirebbero la stessa strada. Le cinque Regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia) sono nate negli anni del Dopoguerra per compensare le condizioni di oggettivo svantaggio delle grandi isole e per tutelare le minoranze linguistiche. Se anche il cento per cento dei lombardi chiedesse attraverso il referendum di passare allo statuto speciale, non cambierebbe nulla. Perché soltanto il Parlamento può prendere una decisione di questa natura e lo dovrebbe fare attraverso una legge costituzionale che richiede due passaggi sia alla Camera, sia al Senato e una maggioranza qualificata. Insomma, un iter molto più complesso che non un semplice referendum la cui domanda implicita è «Volete pagare meno tasse e avere servizi pubblici migliori?». Qualcuno potrebbe obiettare che un referendum avrebbe comunque valore politico, sarebbe una lampante manifestazione della volontà popolare. In realtà, proprio perché l’esito della consultazione sarebbe scontato, il suo peso politico è inesistente già in partenza. Ma allora perché imbarcarsi in un’impresa probabilmente inutile, ma certamente costosa? Già, perché il problema è proprio questo: la giunta Maroni ha messo in preventivo 30 milioni per l’organizzazione del referendum e con i tempi che corrono non è certo una spesa irrilevante. Ora la parola spetta al consiglio regionale che dovrà discutere la proposta di legge sul referendum. Per approvarla serve una maggioranza di due terzi dei consiglieri e quindi è indispensabile il voto delle opposizioni o almeno di una parte di esse. Maroni ha detto che «Se il Pd dirà di no, dovrà spiegare ai cittadini perché non vuole che i lombardi si tengano i propri soldi». Le cose, come abbiamo cercato di spiegare, non stanno esattamente così. E Maroni lo sa. In campagna elettorale aveva promesso: «Votatemi e io mi impegno a trattenere in Lombardia il 75 per cento delle tasse pagate dai lombardi». Un anno dopo la sua elezione, a chi gli chiedeva conto di quella promessa candidamente rispondeva: «Dipende da Roma perché le leggi fiscali le fa il Parlamento». Forse che prima non lo sapeva? Ecco, se mai si facesse il referendum e il risultato fosse il prevedibile plebiscito a favore dello statuto speciale, Maroni ci spiegherebbe che tocca al Parlamento cambiare la Costituzione. Ma lo sappiamo già, senza bisogno di spendere 30 milioni per una consultazione dall’esito scontato.


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