Corriere della Sera 11/07/15
Donatella Dicesare
Dove eravamo l’11 luglio del 1995?
Molti di noi hanno difficoltà a ricordarlo. In quel giorno d’estate
di vent’anni fa è caduta Srebrenica, ed è iniziato il massacro.
Così, fra la disattenzione dell’opinione pubblica, le
responsabilità di Usa, Francia e Gran Bretagna, e le colpe dell’Onu,
è stata scritta l’ultima atroce pagina del libro nero del
Novecento.
Stretta fra le gole dei monti, nella Bosnia orientale,
Srebrenica era stata dichiarata nel 1993 safe haven , «zona
protetta». I musulmani bosniaci non esitarono a cercarvi riparo in
migliaia.
D’altronde, già allora, si era materializzato lo
spettro dei campi. Nella ex Jugoslavia, solcata dalla guerra, campi
di concentramento erano stati creati ovunque: stadi, miniere,
depositi, aree dismesse. Il più noto è quello di Omarska. Ai
miliziani serbi non mancò la fantasia. Alle torture tradizionali
aggiunsero nuove sevizie: ingestione di olio da motori, evirazione,
cannibalismo forzato, necrofilia. Le donne furono sottoposte a stupri
collettivi e sistematici. Il giornalista americano Roy Gutman
denunciò, ma restò inascoltato.
È in tale contesto che va
vista Srebrenica, una zona protetta che non tardò a rivelarsi un
grande campo. Per quasi tre anni i rifugiati sopravvissero in quella
valle tetra, fra stenti e isolamento, fin quando, malgrado la
presenza di tre compagnie olandesi di caschi blu, l’11 luglio 1995
i militari serbo-bosniaci, guidati da Ratko Mladic, che da tempo
circondavano l’enclave, entrarono a Srebrenica. Chiesero la
consegna di tutti i maschi validi. E la benzina per evacuarli. Dalle
ultime rivelazioni emerge che i caschi blu, senza troppe domande,
fornirono 30 mila litri. I satelliti-spia fotografarono ogni cosa, ma
i raid della Nato si fecero attendere invano.
Il massacro
richiese alcuni giorni. E avvenne nelle frazioni intorno. Nel campo
di Bratunac i giovani musulmani furono ordinati in due file parallele
e abbattuti per lo più a randellate. Ma c’era chi, tra i
massacratori, preferì conficcare l’ascia nella schiena, chi
tagliare la gola. La sera, dei 400 da eliminare, restavano ancora
296; nella notte furono mandati davanti a un plotone di esecuzione.
Mentre delle oltre 8.000 vittime si cercano ancora i resti (i corpi
di almeno 1.200 non sono stati rinvenuti), si discutono due grandi
questioni. La prima è quella della definizione del massacro. Si è
trattato di «genocidio»? E di che tipo?
L’Onu è apparso
titubante. E ora, a fermare la già travagliata risoluzione, giunge
il veto della Russia. Al contrario, il 2 agosto 2001 il Tribunale
penale internazionale dell’Aia ha riconosciuto nel massacro di
Srebrenica un «genocidio». Questo giudizio, confermato in appello
il 19 aprile 2004, si basa sulla evidente «intenzione» che ha
guidato la «pulizia etnica»: quella di «distruggere almeno una
parte sostanziale di un gruppo protetto». Se dunque, dal punto di
vista quantitativo, non si può avvicinare Srebrenica al massacro
degli 800.000 tutsi in Ruanda, si sottolinea però la continuità tra
pulizia etnica e genocidio. Distruggere per sradicare: sta qui la
continuità. Non si uccide, ad esempio, per sottomettere, bensì per
eliminare una intera comunità da un territorio. Al di là delle
cifre, quel che conta è la volontà di purificare uno spazio dalla
presenza di un «altro» considerato indesiderabile, pericoloso,
ingombrante. È insomma la volontà di decidere con chi coabitare che
spinge, in nome di un «noi» etnicamente puro, a un uso della
chirurgia in politica.
La seconda grande questione riguarda
invece il giudizio filosofico-politico. È vero che i massacratori
non disdegnarono il faccia a faccia, che i carnefici, a differenza di
quel che avvenne nelle officine hitleriane, cercarono la vicinanza
delle vittime. Si scagliarono contro l’inquilino della porta
accanto, il collega di lavoro. Spesso martoriarono e mutilarono
attingendo, nel lavoro sanguinario, a pratiche già in uso. Ma questo
non deve far credere che Srebrenica abbia rappresentato il riemergere
della barbarie e dell’odio atavico, né che sia stata semplicemente
la conseguenza di un piano di spartizione, di una ridefinizione dei
nuovi Stati europei che stavano per sorgere.
Srebrenica è stato
un territorio, posto fuori dall’ordinamento normale, dove
(purtroppo sotto l’egida iniziale dell’Onu) sono stati internati,
privati dei diritti, e infine eliminati, essere umani ritenuti
superflui. Perciò si inscrive nell’universo concentrazionario. Il
nome di Srebrenica segna, dopo Auschwitz, l’inquietante ritorno del
campo nel paesaggio politico dell’Europa.
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