La Stampa 28 luglio 2015
massimo gramellini
Nel giorno in cui i musi lunghi del
Fondo Monetario annunciano che la crisi in Italia finirà soltanto
tra vent’anni, alcuni giudici della Cassazione appena sbarcati dal
pianeta di Papalla sentenziano che «la perdita del lavoro non
costituisce un danno grave alla persona». Un pizzicotto, tutt’al
più.
La Suprema Corte si pronunciava sul
ricorso di un imprenditore cuneese in causa col Fisco e in affanno
coi soldi, che sosteneva di avere usato quelli destinati all’Iva
per pagare le retribuzioni dei dipendenti. Che si tratti della verità
o del fantasioso alibi di un commosso evasore, non è il punto che
qui ci interessa. Ci interessa che i giudici di Papalla non abbiano
ritenuto di inserire lo stipendio e il posto di lavoro nella cerchia
ristretta dei valori la cui perdita procura una ferita insanabile
alla dignità umana. Vi interesserà sapere che in quella lista -
oltre ovviamente alla vita, alla salute, alla libertà morale e
sessuale - i giudici di Papalla evocano un concetto molto astratto e
abusato come l’onore. Ma se vivessero sulla Terra saprebbero che
nulla lede l’onore e la considerazione di se stessi quanto la
mancanza o la perdita del lavoro. Un giovane disoccupato cronico si
vive come un fallito; un cinquantenne licenziato e con speranze quasi
nulle di riqualificazione non ha più occhi per piangere e neanche
per guardare in faccia i propri figli. Certi giudici meriterebbero di
perdere il posto per manifesta disumanità. In questo caso,
effettivamente, non si tratterebbe di un danno grave.
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