Corriere della Sera 19/07/15
Maria Teresa Meli
Quello che Matteo Renzi enuncia dal
palco dell’Auditorium dell’Expo è un vero e proprio programma
per la fase due del suo governo, di qui al 2018.
Era da mesi che
aveva messo sotto i suoi consiglieri economici e lavorava a stretto
contatto con il ministro Padoan alla riduzione delle tasse. Perché
per il premier è quello l’obiettivo più importante, non solo per
il suo esecutivo ma anche per il suo partito: «Voglio modificare
radicalmente l’immagine del Pd, questa è la vera svolta per il
Partito democratico. Perciò ho preferito annunciare adesso queste
misure, che avremmo dovuto invece annunciare in autunno, per dare
subito il segno del cambiamento».
Renzi è perfettamente conscio
che nel 2018, quando affronterà l’ultimo punto del suo programma
fiscale, quello degli scaglioni Irpef, «diranno che la mia è una
manovra elettorale» per le politiche. Ed è anche per questa
ragione, spiega, «che voglio dirlo qui e ora». Perché si sappia,
appunto, che di un progetto si tratta e non di un mero marchingegno
per vincere le prossime elezioni.
Insomma, il messaggio è che il
«taglio delle tasse non è più un tabù». Però il fatto che il
primo step del suo programma giunga in coincidenza con le
amministrative non può essere un caso fortuito. Il tema delle tasse
è un’arma vincente. Spiazza tutti gli avversari, al di là delle
loro dichiarazioni polemiche di ieri. A destra come a sinistra sarà
difficile, per esempio, condurre una battaglia contro l’abolizione
della tassa sulla proprietà della prima casa, quando il governo
attuerà il suo piano. Tanto più che Italia, come è noto, i
proprietari di un’abitazione sono la stragrande maggioranza e in
alcuni dei comuni in cui si voterà il prossimo anno la tassazione è
altissima.
Nel 2017 Renzi passerà alla seconda tappa del suo
programma. Gli interventi su Irap e Ires. «Sulla tassazione dei
profitti delle società voglio arrivare ai livelli della Spagna», è
il vero obiettivo del premier. Anche questo difficile da contrastare.
Sarebbe complicato per Berlusconi spiegare al suo elettorato il
motivo per cui non appoggia Renzi.
Ma anche la minoranza interna
è rimasta spiazzata dal discorso del presidente del Consiglio. Lo si
vedeva dai volti e dagli sguardi lì all’Auditorium. Dalla
difficoltà di replicare alle sue parole. Del resto, il premier, che
si è guardato bene dal fare qualsiasi concessione ai bersaniani, su
un punto è stato tassativo: «Dobbiamo occuparci dell’Italia, non
discutere solo tra di noi». Come a dire: «Basta occuparci del
nostro ombelico». E infatti, mentre gli esponenti della minoranza,
sul palco, sembravano rimasti ancora alla puntata del giorno prima e
criticavano l’eventuale appoggio dei verdiniani alla riforma
costituzionale, il presidente del Consiglio il nome di Denis Verdini
non lo ha nemmeno pronunciato.
Ai fedelissimi, prima, aveva già
anticipato che non lo avrebbe fatto e aveva spiegato: «Dov’è lo
scandalo se una decina di senatori vogliono votare la nostra riforma?
Non è che noi diamo in cambio presidenze di commissione o posti di
governo. Questo non esiste. Abbiamo sempre detto che più gente
condivideva il ddl meglio era. Forse il problema è per altri, perché
più voti ci sono per la riforma costituzionale, meno contano i loro
veti».
Sì perché il Renzi di questa Assemblea nazionale veste
i panni del presidente del Consiglio, ma nel contempo quelli del
Renzi prima maniera. E si capisce chiaramente che non dà per
scontate le modifiche al ddl Boschi. Per carità, lui è pronto al
dialogo, ma quel che si arguisce è che la riforma si cambia solo se
la maggioranza è d’accordo, certamente non perché la minoranza
interna lo impone.
E c’è un terzo messaggio che il Renzi prima
maniera ha lanciato ai dirigenti che pensano di gestire le realtà
locali a modo loro o credono di riprendersi le chiavi della «ditta»:
nel Pd, sino a quando ne sarà il leader, comanderà lui. Nessuno si
illuda.
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