Corriere della Sera 25/07/15
Guido Olimpo
Un attentato ambiguo. Come è sempre
stata ambigua la Turchia nella lotta ai jihadisti, convinta di
poterli usare per i suoi giochi in Siria finalizzati alla sconfitta
di Assad e come bastione per arginare i curdi. Eppure la strage di
Suruc, attribuita all’Isis, può cambiare il quadro. Con
un’avvertenza. Ankara ogni volta che si muove non è mai
completamente sincera.
Gli obblighi verso l’alleanza sono
annacquati dai disegni del Sultano Erdogan, in concorrenza con altri
attori regionali, dai sauditi al Qatar, ognuno con le sue carte
nascoste .
La base
I turchi, finalmente, hanno concesso al
Pentagono l’utilizzo della base di Incirlik per le azioni anti
Isis. Droni e caccia americani arriveranno più rapidamente sui
target e resteranno maggior tempo in zona d’operazioni. Un aspetto
non da poco che potrebbe assumere maggiore significato se Ankara
userà il suo apparato possente per colpire i jihadisti del Califfo.
Punto sul quale non tutti sono convinti.
L’apertura del fronte
turco è destinata ad aumentare la cadenza delle incursioni della
coalizione. La media recente è stata di 29-30 raid quotidiani così
divisi: 46% in Kurdistan, 6% in Siria, il resto in Iraq. Gli attacchi
hanno aperto vuoti importanti, si parla di oltre 10-16 mila militanti
uccisi (a seconda delle fonti), molti gli «ufficiali» eliminati.
Numeri che però non soddisfano i critici. Per molti il contenimento
scelto da Obama — perché di questo si tratta — è appena
sufficiente .
Cosa serve
Gli esperti ribadiscono: per fermare
l’Isis servono forze speciali al fianco dei locali, una campagna
aerea massiccia e soprattutto soldati che «illuminino» da terra i
bersagli. Senza la loro presenza i bombardamenti hanno un impatto
limitato, visto che spesso gli F18 sono tornati indietro senza aver
sganciato gli ordigni per la difficoltà di individuare l’avversario.
Quanto è avvenuto a Kobane, la città curda dove lo Stato Islamico
ha patito la sua prima vera sconfitta, lo ha dimostrato. Grazie alla
collaborazione tra insorti YPG e Comando centrale, con un flusso
continuo di informazioni precise, la coalizione ha falciato i
mujaheddin. Ora si ipotizza che i pochi ribelli siriani addestrati
dalla Cia possano presto assumere il ruolo di «designatori».
Andando oltre la componente «aviazione», è necessario avere una
forza agile, mobile, non dipendente da grandi basi. Il Pentagono deve
uscire — indicano gli analisti — dalla tagliola logistica che
porta ad avere tre elementi d’appoggio per ogni soldato che spara.
Allora piccoli avamposti, magari con nuclei di elicotteri, unità
scelte libere di agire. Non solo per distruggere, ma anche per creare
insicurezza nel campo nemico. Al momento gli Stati Uniti hanno
schierato circa 4 mila uomini in Iraq ai quali si aggiungono
probabilmente i soldati segreti, quelle delle missioni
inconfessabili. Costo dell’intervento: oltre 3 miliardi di dollari.
Non poco .
Il nemico
Ad un anno dalla nascita del Califfato, lo
Stato Islamico è diventato Stato. Regna su 82.940 chilometri
quadrati, ha perso circa il 10% del territorio, tiene città
importanti come Mosul e Ramadi in Iraq, Raqqa e Palmira in Siria. Ha
dovuto battere in ritirata davanti ai curdi siriani dell’YPG a
Kobane e Tal Abyad, non ha sfondato a nord di Aleppo. Nel frattempo
ha proclamato 33 «wilaya» — province — dal Nord Africa
all’Afghanistan: in alcune la presenza è reale (come nel Sinai),
in altre ha radici poco profonde.
Molti pensavano che la cura
brutale imposta da Al Baghdadi avrebbe provocato reazioni popolari.
Invece l’Isis governa, gestisce servizi, garantisce — a suo modo
— l’ordine. Le sue casse sono riempite dai traffici del petrolio,
dalle tasse imposte e dalle estorsioni. La sua economia resiste.
Qualsiasi forma di opposizione è repressa nel sangue.
La
strategia è sempre quella del «rimanere ed espandersi» secondo tre
cerchi: il primo è quello siro-iracheno, poi c’è l’area
mediorientale, infine il resto. La sua propaganda si è rivelata
molto efficace ed oggi la percezione è che sia in espansione. Sul
piano militare può contare su quasi 60 mila militanti, divisi tra
locali e i «muhajireen», i volontari venuti dall’estero.
Fondamentale il travaso di forze sull’asse Siria-Iraq così come le
tattiche duttili: veicoli bomba con kamikaze per attaccare e
difendersi; accerchiamento delle basi nemiche; infiltrazione affidata
ai «inghemasiyoun», gli invisibili, i militanti responsabili di
target killing e attentati dietro le linee, stragismo per indebolire,
dispersione per sottrarsi ai raid.
Infine una struttura
gerarchica con sottocapi e dirigenti locali per sopravvivere
all’eventuale morte del leader. Tutti paiono rassegnati ad una
lunga guerra .
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