Corriere della Sera 07/04/15
Paolo Conti
Papa Francesco ha condannato il
«silenzio complice» che circonda il massacro di tanti cristiani nel
mondo e ieri, lunedì dell’Angelo, ha chiesto che il mondo non
assista inerte. Lei, ministro Paolo Gentiloni, cosa pensa di queste
parole?
«C’è una gravissima minaccia nei confronti di tanti
cristiani in diverse parti del mondo. E bisogna fare di più. Ma da
anni c’è un male europeo, quella miscela tra egoismo e ignavia che
spinge a voltare lo sguardo dall’altra parte rispetto a ciò che
accade oltre il nostro piccolo mondo antico. Per cui se proponi di
intervenire contro il terrorismo fai un errore, se investi in
attività di cooperazione e sostegno a favore dei profughi cristiani
stai sprecando soldi, se adotti politiche di accoglienza agli
immigrati compi una follia».
Ernesto Galli della Loggia,
domenica 5 aprile, sul «Corriere della Sera» ha parlato della
fragile identità dei cristiani sottolineando come l’unica risposta
possibile sembri il silenzio...
«Purtroppo abbiamo già assistito
a quel silenzio europeo vent’anni fa, quando le truppe guidate da
Ratko Mladic massacrarono ottomila bosniaci musulmani a Srebrenica.
Ora la persecuzione dei cristiani ci interpella ancora più da vicino
perché riguarda la nostra identità e le nostre radici. Dobbiamo
fare di più. Non possiamo stare in silenzio. Anzi, occorre dire
anche le cose come stanno».
Cosa significa e cosa comporta fare
di più? Matteo Renzi, in un’intervista a «Il Messaggero», ha
detto che su questo tema c’è troppa timidezza e che ci sarà
un’iniziativa anche a livello del Partito socialista
europeo.
«Queste iniziative di mobilitazione sono fondamentali.
Alcune sono già in corso, poco seguite dai media. Penso alla seduta
speciale del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 27 marzo scorso in
cui il segretario generale Ban Ki-moon ha proposto di inserire
l’intolleranza religiosa tra i parametri che determinano le accuse
di genocidio verso i singoli Paesi. Così come penso alla decisione
del Vicariato di Roma di destinare tutte le collette pasquali
raccolte nelle chiese durante Pasqua ai cristiani dell’Iraq. E
penso anche che alla comunità cristiana del Kenya, dopo l’atroce
strage degli studenti dell’Università di Garissa, vadano dati
segnali immediati di sostegno, anche raccogliendo la disponibilità
di diverse università italiane. Cosa significa fare di più? Sul
nostro territorio, proteggere i simboli e i luoghi della cristianità
e tutelare le minoranze religiose, penso agli ebrei italiani, alle
loro comunità, che potrebbero essere visti come bersagli. E poi c’è
una verità: per contrastare il terrorismo è inevitabile il risvolto
militare. Qualcuno potrà scandalizzarsi, ma questi gruppi vanno
affrontati anche sul piano militare. Non userò la parola combattere,
altrimenti mi ritrovo nei panni del crociato...».
Quindi non
basta la diplomazia, c’è anche l’opzione militare...
«Facciamo
parte di una coalizione militare anti Daesh impegnata soprattutto in
Iraq e in Siria. Ma in futuro si potrebbe valutare l’opportunità
di contribuire al contrasto del terrorismo in Libia o di fenomeni
come Boko Haram in Nigeria, per esempio. I carabinieri italiani sono
impegnati in Somalia per contribuire alla formazione e
all’addestramento delle forze armate locali che devono combattere
proprio contro i responsabili della strage di Garissa. Insomma, c’è
una dimensione militare».
Lei usa l’acronimo Daesh, e non
l’espressione Isis. Perché?
«Lo ritengo un gesto di
controinformazione rispetto a chi si attribuisce il ruolo di stato
islamico e si autoproclama califfo. “Per noi sono dei rinnegati”,
mi ha detto giorni fa re Abdallah II di Giordania. E a questo
proposito ricordo che c’è un’altra dimensione alla quale non
possiamo sottrarci. Ovvero sostenere con decisione chi, nell’
enorme sfida politico-culturale in atto dentro il mondo islamico, si
impegna contro il terrorismo. “Voi potete aiutarci ma siamo noi che
dobbiamo sconfiggere i rinnegati”, mi ha detto proprio il re di
Giordania. Identiche parole sono venute dal presidente egiziano Al
Sisi e dall’Imam di Al Azhar, Sheikh Ahmed al Tayeb. E per le
stesse ragioni dobbiamo cercare di favorire, per quanto è nelle
nostre possibilità, una convivenza tra sunniti e sciiti».
Sempre
Ernesto Galli della Loggia ha proposto che il nostro Paese mostri una
doverosa generosità verso i profughi cristiani costruendo ospedali,
scuole, case.
«Potrei cavarmela dicendo che già lo facciamo. Che
appena mercoledì scorso ho visitato, a ottanta chilometri da Amman,
un ospedale costruito dall’Italia per i rifugiati siriani. Ma
dobbiamo sapere che l’Italia non sta facendo abbastanza perché le
risorse messe a disposizione non sono all’altezza della civiltà
che rappresentiamo».
E come è possibile trovarne altre?
«Qui
torniamo alla miscela tra egoismo e ignavia, al volto girato
dall’altra parte, alla logica secondo la quale tutto si risolve con
una grande indignazione ma al riparo del nostro recinto. Dobbiamo
decidere se vogliamo assumerci responsabilità chiare, svolgere il
nostro ruolo oppure se dobbiamo continuare a tenere questi problemi
al di fuori del nostro piccolo mondo, che poi è una semplice
illusione. Ma questo comporta spese, e ciò riguarda anche l’opzione
militare. L’importante è avere ben chiara la natura di questa
persecuzione».
E qual è la sua analisi?
«Si saldano due
questioni. I cristiani visti come identificazione dell’Occidente,
quindi bersaglio anche dove sono maggioranza, come in Kenya. E poi i
cristiani quando sono minoranza, oggetto di intolleranza come in
Pakistan. Prendiamo il caso dell’Iraq. Dieci anni fa i cristiani
erano un milione e mezzo, ora sono meno di trecentomila, col rischio
di scomparire in zone come la Piana di Ninive. Quando il Papa mette
l’accento sui cristiani del Medio Oriente e li definisce un piccolo
gregge sul quale grava una grande responsabilità, si riferisce
proprio a questo dramma».
Pensa che le voci di una possibile
confluenza di Al Qaeda nel Daesh rappresentino un ulteriore
pericolo?
«Secondo quanto risulta ai maggiori Paesi occidentali e
a noi, è prematuro immaginare una confluenza di diversi gruppi
jihadisti nel Daesh. Ciò che sta certamente accadendo, penso a Boko
Haram, è che i cupi vessilli neri del Daesh vengono usati da
raggruppamenti differenti come in un macabro franchising del terrore,
perché quel marchio ha un chiaro impatto mediatico».
Un’ultima
domanda sulle preoccupazioni di Israele dopo l’accordo con l’Iran
sul nodo nucleare. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu,
sostiene che con l’intesa miliardi di dollari finanzieranno in
futuro il terrorismo globale. Qual è la sua opinione?
«L’Italia,
in tutti questi anni, è stata favorevole al raggiungimento di un
buon accordo, e certo non per astratto amore del negoziato. Condivido
l’opinione degli Stati Uniti: i fondamenti sono stati raggiunti.
Capisco le preoccupazioni israeliane, ma escludo che Netanyahu possa
avere nostalgia di Ahmadinejad. Se l’accordo verrà definitivamente
concluso a giugno, sono certo che stabilizzerà l’Iran e favorirà
una sua evoluzione in una direzione meno pericolosa per Israele».
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