Corriere della Sera 14/04/15
Franco Venturini
Il cordoglio e la pietà per quanti
continuano ad essere inghiottiti in quell’immenso cimitero che
chiamiamo Mediterraneo si uniscono ormai all’ansia della fretta e
alla paura dell’impotenza. Sono «soltanto» dieci i morti di ieri.
Ma negli ultimi quattro giorni i migranti sono stati quasi settemila.
E siamo soltanto in aprile, all’alba della buona stagione. Chi
dedica ai flussi migratori dalla Libia una attenzione professionale
ritiene che l’Italia abbia due mesi, tre al massimo, prima che
sulle nostre coste meridionali si abbatta uno tsunami di diseredati:
250.000 secondo gli ottimisti, 500.000 per chi crede che a mettersi
in moto sarà un «bacino» più ampio costantemente alimentato dal
moltiplicarsi delle guerre, dal Corno d’Africa allo Yemen, dalla
Siria più che mai in fiamme all’Iraq dove si tenta di contenere
l’Isis. Per avere un termine di paragone, nel 2014 la cifra
corrispondente fu di 170.000 per tutto l’anno.
Inevitabilmente,
se le cose andranno così, molti moriranno nel tentativo di
raggiungere l’Europa toccando le rive italiane. A loro andrà
ancora una volta il nostro dolore, mentre Guardia costiera, Marina
militare e tanti altri si dedicheranno a salvare i più fortunati. Ma
non ci si può più fermare a questo. L’arrivo di una massa di
immigrati senza precedenti tenderà a destabilizzare la nostra
politica interna favorendo i partiti del tanto peggio tanto meglio,
assorbirà risorse economiche che non ci sono, farà piovere
sull’Europa sacrosante indignazioni, ma l’Europa poco farà per
darci una mano, inaridita com’è dalle competenze nazionali e dalla
scarsità di mezzi e di volontà politiche.
L’opinione
pubblica italiana non deve farsi travolgere. Deve invece pensare al
costo delle guerre e delle miserie, anche di quelle lontane. Ma
soprattutto, se è vero che abbiamo due o tre mesi di tempo, dobbiamo
identificare nella Libia il primo interesse nazionale italiano e
tentare, con i nostri alleati, di battere sul tempo i negrieri del
XXI secolo. Si dice che siano ventimila i miliziani libici che
gestiscono i campi di coloro che attendono il barcone di turno.
Gestiscono, cioè torturano, violentano, estorcono denaro dalle
famiglie d’origine e poi consegnano i disgraziati agli scafisti.
Non sarebbe impossibile colpire la loro logistica, ma chi ci
coprirebbe le spalle? Quale governo libico legittimerebbe la nostra
azione? Come potremmo evitare di unire tante altre bande e tante
altre milizie contro lo straniero, per di più ex colonizzatore?
Il
negoziato e la politica anche per questo tengono ancora banco. Perché
in Libia, se si vuole evitare un disastro ancora più grande e
indirizzare tutti contro l’espansione territoriale dell’Isis,
bisogna far nascere un unico interlocutore. E bisogna farlo imponendo
un limite di tempo alle rivalità, alle vendette, alle ambizioni
smodate delle fazioni che hanno sin qui messo i bastoni tra le ruote
al rappresentante dell’Onu Bernardino León. Ad Algeri è
cominciato ieri il secondo round di incontri tra parlamentari di
parti opposte. Domani si tornerà anche al più importante tavolo di
Rabat, e León spera di strappare un accordo sulla sua complessa
proposta istituzionale: un governo di unità con a capo un
presidente, e al suo fianco un consiglio presidenziale composto da
tecnici indipendenti; un Parlamento basato su quello odierno di
Tobruk ma arricchito da una fetta di quello di Tripoli; un Consiglio
di Stato e una assemblea costituzionale. Ottimo per trovare un posto
a tutti, ma potrebbe funzionare? Certamente no se l’ex generale
Haftar continuerà a fare la guerra con l’appoggio di Egitto ed
Emirati, trovandosi di fronte gli islamisti foraggiati dal Qatar e
dalla Turchia. Certamente no se si accentuerà la tendenza alla
disgregazione politica e militare presente su entrambi i fronti, a
tutto vantaggio dell’Isis.
L’onda anomala di umanità
straziata e straziante è ormai alle porte, lo spazio ancora a
disposizione della diplomazia è minimo. E anche l’uso della forza
non può essere oggetto di facile retorica, se si tiene in conto che
una operazione di peace keeping in Libia, con l’accordo dell’Onu
e dopo un eventuale successo negoziale, richiederebbe da sessantamila
a settantamila uomini pronti a combattere e a morire, non soltanto ad
istruire o ad assistere. Dalla Libia, per un verso o per l’altro, è
in arrivo una sfida alla tenuta del nostro fronte interno. Quello
stesso fronte che subisce involuzioni deleterie in altri Paesi
mediterranei, a cominciare dalla Francia con il riciclato Front
National e dalla Grecia con la neonazista Alba Dorata.
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