La Repubblica 18 aprile 2015
ZITA DAZZI
IL RACCONTO
«Un uomo è un uomo solo se è libero,
se supera i condizionamenti », è la frase che ripete più spesso.
«Fate ogni giorno qualche atto libero; non necessariamente una
preghiera, che se non è un pensiero direttamente rivolto a Dio, non
è neanche un atto libero». Non era ancora prete, don Giovanni
Barbareschi, classe 1922, quando chiese al cardinale Schuster di
andare a benedire le salme dei dieci partigiani fucilati il 10 agosto
1944 dalla Brigata Muti, in piazzale Loreto. Ed era prete da un solo
giorno quando finì nella cella 102 del quinto raggio del carcere San
Vittore, il braccio dei “prigionieri politici”, dove la prima
cosa che fece fu andare a confessare altri cinque combattenti che
dovevano essere fucilati la mattina dopo. La sua storia si potrebbe
sintetizzare con queste due sole date. Ma ad aiutare una memoria
collettiva non facile di questi tempi, arriva, nel 70° anniversario
del 25 Aprile, per iniziativa del centro Ambrosianeum e della casa
editrice In Dialogo, la ristampa del giornale clandestino fondato da
don Barbareschi, il prete della Resistenza. Saranno vendute a scopo
di beneficenza le prime 500 copie rilegate de “Il ribelle” —
questo il nome della rivista che “esce come e quando può”, come
recitava l’intestazione — che riuscì a essere pubblicato solo 26
volte, grazie al coraggio di un gruppetto di amici, universitari: fra
questi il 21enne Giovanni Barbareschi — quarto figlio di una
famiglia antifascista — assieme a un giovane David Maria Turoldo e
a Carlo Bianchi, Mario Apollonio, Dino Del Bo, Teresio Olivelli e al
tipografo Franco Rovida, che finirono i loro giorni in un campo di
sterminio tedesco.
Don Giovanni, che fu cappellano dei
partigiani in Valcamonica, il 25 aprile sarà in via delle Ore 3,
all’Ambrosianeum, per raccontare ancora una volta quegli anni, gli
oltre 2mila ebrei salvati stampando documenti falsi («Sarei ancora
capace, ho i timbri che usavo allora, venivano perfetti», racconta
emozionato come un bambino), le torture subite in carcere, il
cardinale Schuster, inginocchiato ai suoi piedi che lo consola dopo
il pestaggio in cella: «Così la Chiesa primitiva onorava i suoi
martiri. Ti hanno fatto molto male gli Alemanni? ». Adesso che è
tanto vecchio, don Giovanni ogni volta piange quando tira fuori gli
originali de “Il ribelle”, il giornale delle Brigate Fiamme
Verdi, dove si spiegava che «noi non siamo liberali, non siamo
democristiani, non siamo del partito d’azione, non comunisti, non
socialisti, non progressisti, e — Dio ne scampi — neppure
monarchici; in casa nostra spira buon vento, vento di sincerità, di
libertà, ognuno può o sa difendere proprio ideale, ma niente redini
sul collo e niente paraocchi».
È rimasta la stessa di un tempo, la
passione e il vigore con cui ogni volta torna su quegli anni, il
sacerdote amico di Carlo Maria Martini, “Giusto delle nazioni”
per aver messo in salvo tanti ebrei. «Eravamo in otto a fare “Il
ribelle”: sei sono morti fucilati o in campo di concentramento. E
io sono ancora qui a parlare in loro memoria, perché li porto tutti
nel cuore. Non era facile farlo e diffonderlo, chi lo stampava è
morto. Ma i morti parlano ancora, trasmettono il valore della
libertà, il coraggio di dire no. Bisogna essere coscienti di quel
che si fa, portare un giudizio critico nelle motivazione del proprio
agire, superando l’abitudine, ciò che fanno tutti».
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