VITTORIO ZUCCONI
La Repubblica 4 aprile 2015
Un uomo sempre più solo che
combatte contro il tempo del potere che gli sta scadendo, Barack
Obama ottiene dall’Iran una bozza d’accordo che abbatte un altro
tabù della storia americana negli ultimi 50 anni, dopo Cuba nello
scorso dicembre. Il “Grande Satana” e lo “Stato Canaglia” si
sono incontrati, hanno trattato, hanno firmato. TRA ladiffidenza
anche degli amici, l’ostilità ringhiosa dei nemici interni, la
collera degli alleati sauditi e israeliani nella regione, il
presidente che ricevette un Nobel per la Pace senza avere fatto nulla
per meritarlo ora cerca, nel crepuscolo della propria stagione
politica, di lasciare un’eredità che giustifichi, a posteriori,
quel riconoscimento, che oggi anche il New York Times sarebbe
disposto a dargli.Nel merito e nella natura del compromesso raggiunto
fra il Segretario di Stato Kerry e Javad Zarif, il ministro degli
Esteri iraniano, gli esperti, tanto quelli benevoli come Fareed
Zakaria e David Ignatius come i nostalgici delle ingloriose guerre
preventive come il neocon John Bolton, ex ambasciatore all’Onu,
vedono ombre e ambiguità che si riassumono in un dettaglio
importante: il testo che la delegazione americana ha letto è
composto di quattordici pagine e ricco di precisazioni sui numeri, le
ispezioni, le sanzioni in caso di violazione. Il documento che Zarif
e Federica Mogherini, responsabile per la politica estera Ue, hanno
letto insieme è una smilza pagina e mezzo. E il trattato vero e
proprio non sarà firmato, si spera, che il 30 giugno. Ogni processo
alle intenzioni è possibile, dunque, perché sono sempre le
intenzioni reali e recondite dei firmatari, non la carta e
l’inchiostro, ciò che rendono sostanziale un trattato. E il
ricordo torna immediato al Patto di non aggressione fra Germania e
Urss, nell’agosto del 1939, meno di due anni prima dell’aggressione
tedesca all’Unione Sovietica, inarrivabile esempio di totale
malafede e di inganno reciproco. Ma nella spinta quasi disperata
che Obama ha impresso ai negoziati in Svizzera, costringendo Kerry a
notti bianche ai tavoli con i formidabili avversari iraniani, nelle
fretta con la quale il presidente si è fiondato da solo nel Giardino
delle Rose dietro alla Casa Bianca per annunciare l’accordo senza
la consueta coreografia di impiegati e funzionari plaudenti c’è
l’ansia che consuma tutti i capi di Stato americani arrivati alle
ultime pagine della propria avventura: il desiderio di lasciare
un’eredità che segni la storia. Un fatto che leghi per sempre il
loro nome a qualcosa di più profondo e duraturo di una legge per la
costruzione di un ponte o di una riforma della assicurazione
sanitaria. Anche presidenti giudicati mediocri o condannati dai
contemporanei, come Carter e Nixon riuscirono a incidere il proprio
nome nel marmo della storia del mondo, il primo con gli accordi di
Camp David e la pace fra Egitto e Israele, Nixon con il
riconoscimento della Cina e l’accettazione della sconfitta
americana in Vietnam. Reagan, il crociato che era partito lancia in
resta contro l’»Impero del Male» sovietico trovò poi in
Gorbaciov il partner perfetto per liquidare la prima fase della
Guerra Fredda, per trasformarsi da “guerrafondaio” a “peacemaker”
e per ottenere l’abbattimento del muro. E Washington ricorda ancora
la disperata, affannosa, vana maratona di Clinton negli ultimi mesi
della propria presidenza insudiciata dall’affaire Lewinsky, per
strappare a Ehud Barak e ad Arafat, sequestrati da lui per giorni a
Camp David, l’accordo finale sui due stati. La fretta, l’ansia
di scolpire il proprio nome sulla stele del tempo strappandolo alla
sabbia della cronaca, è ciò che preoccupa di più i critici
dell’accordo, guidati da un Netanyahu che anche ieri ha
profetizzato l’apocalisse nucleare per Israele e per tutto
l’Occidente parlando di «un pericolo mortale per il mondo intero».
Obama sa bene che ormai il proprio destino è legato
indissolubilmente a questo negoziato. Se il regime degli ayatollah
dovesse barare al gioco, se si dovesse scoprire, chissà a quale
prezzo, che gli iraniani hanno carte nascoste e sono riusciti a
dotarsi di un arsenale nucleare (e dei mezzi per usarlo) invece della
benedizione che spetta ai portatori di pace, il suo nome entrerebbe
nella “Hall of shame”, nel tempio della vergogna, accanto a
quello di Neville Chamberlain che credette, o finse di credere, alle
buone intenzioni di Adolf Hitler a Monaco. Ma la voglia di pace,
spesso dopo molta e inutile guerra, morde sempre i presidenti
americani alla fine del proprio mandato, anche venandosi di quella
utopia idealistica che ispirò Woodroow Wilson con la Società delle
Nazioni dopo la Inutile Strage o Harry Truman con le Nazioni Unite
dopo l’olocausto di Hiroshima e Nagasaki. La sostanza della
nobile pulsione a fine partita riporta sempre al nodo cruciale di
ogni negoziato e di ogni trattato: alle intenzioni di chi li conduce
e alle spinte della popolazione nelle nazioni contraenti. E proprio
qui, sotto la furia della opposizione politica negli Usa, esplosa
nella demenziale lettera di senatori repubblicani a Teheran per
ammonirli a non fidarsi di Obama e nel malumore nascosto degli
avversari che sicuramente si nascondono fra i guardiani della
Rivoluzione khomeinista in Iran, c’è l’indizio più
incoraggiante per il futuro.Il 60% degli americani appoggia l’accordo
con l’Iran. A Teheran, la notizia della fine dell’ostracismo
occidentale contro quella nazione dove la gioventù anela a ritrovare
un posto nel mondo contemporaneo ha portato migliaia di persone per
le strade, in un carosello di gioia da finale di un campionato di
calcio. Mentre i media ufficiali, guidati dal presidente Rouhani, lui
stesso negoziatore capo alle trattative sul nucleare, esternavano
soddisfazione, entusiasmo e lodi per l’ex Grande Satana. Un
capovolgimento totale dalle giornate oscene degli ostaggi
rinchiusi nell’ambasciata americana, nel 1979. Se
anche questa giornata, come la fine dell’embargo a Cuba, la caduta
del Muro, il ritiro dal Vietnam, i trattati con l’Urss per la
limitazione degli arsenali nucleari, l’abbraccio fra Sadat e
Begin sia la fine di un incubo e l’inizio di un altro, né le
Cassandre né i Pangloss ottimisti possono dire con sicurezza
obbiettiva. Nel crogiolo infernale del Medio Oriente, dove nemici dei
nemici divengono amici e le alleanze di convenienza si ribaltano
secondo la regione e la cancrena del fondamentalismo sunnita, nemico
mortale dell’integralismo sciita iraniano, tutto è troppo
angosciosamente fluido perché un pezzo di carta possa raffreddarlo.
Ma Obama, il Nobel accidentale che ora vuole diventare reale, è
rimasto, alla fine del proprio tragitto, fedele al principio
enunciato all’inizio: si tratta con i nemici, purché siano nemici
responsabili e razionali e non è la fede religiosa l’avversario da
combattere, ma chi la usa per volgari intenti di potere militare e
politico. E se i “boia chi molla” dell’interventismo militare,
coloro che auspicano ancora bombardamenti sulle migliaia di impianti
e laboratori nucleari in Iran, sognano guerre preventive, basterà
mostrare loro le magnifiche sorti delle imprese militari in
Afghanistan e in Iraq, per esportare la caricatura cruenta
della democrazia.
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