Corriere della Sera 11/04/15
Goffredo Buccini
L’inesausta miniera di paradossi
della giustizia italiana offre talvolta pepite troppo grosse per
passare inosservate. Per il clamore del caso, com’è accaduto nel
giallo di Perugia. O per il rilievo dei personaggi, come capita
adesso con Vasco Errani.
Presidente dell’Emilia-Romagna dal
1999, stimato trasversalmente dai compagni di partito del Pd e dagli
avversari, Errani si dimette dopo quindici anni di governo regionale,
a luglio del 2014, quando la seconda sezione della Corte d’appello
di Bologna gli infligge un anno di reclusione (con pena sospesa) per
falso. La vicenda è complessa. Il fratello maggiore, Giovanni, è
presidente della cooperativa vinicola «Terremerse» che ottiene
dalla Regione un finanziamento di un milione per la costruzione di
una cantina. Secondo la Procura, dietro quel finanziamento ci sarebbe
una truffa e Giovanni viene condannato in primo grado a due anni e
mezzo.
Mancano pochi mesi alle elezioni regionali del 2010
quando il caso esplode a Bologna sui giornali dell’opposizione.
Vasco Errani commissiona una relazione tecnica per dimostrare la
regolarità dell’operazione «Terremerse» e la spedisce in Procura
accompagnandola con una propria missiva. Secondo i pm bolognesi, la
relazione è «addomesticata» e, assieme alla missiva, costituisce
un falso con cui il presidente della Regione vuole reagire alla
campagna di stampa prima del voto. Il giudice di primo grado assolve
Errani. La Corte d’appello riforma la sentenza e lo condanna. Il
giorno stesso, l’8 luglio, dichiarandosi innocente, lui si dimette
e si consegna al silenzio sino alla sentenza di Cassazione prevista
il prossimo giugno: senza alimentare polemiche, per un falso, dopo
tre lustri di governo senza neppure un avviso di garanzia, in un
Paese dove mafiosi e corrotti restano incollati alla poltrona
gridando alla persecuzione giudiziaria fino all’ultimo
fiato.
Capita però che, l’altro giorno, la Corte d’appello
bolognese (stavolta terza sezione) assolva Giovanni, il fratello,
perché «il fatto non sussiste» (un’altra tranche dell’operazione
«Terremerse» era caduta in prescrizione). Dunque, in soldoni, la
situazione è la seguente: Vasco si ritrova condannato per l’accusa
di avere falsificato carte con cui dimostrare la liceità di
un’operazione che, secondo i nuovi giudici di Giovanni, non è
illecita. Più che un processo, pare una sciarada. Ferme restando
tutte le riserve sull’opportunità politica di concedere
finanziamenti alla coop del proprio fratello, è difficile spiegare a
un osservatore straniero simili contorcimenti giuridici.
Il rito
italiano è sempre più «creativo»: lo dimostra, in tutt’altro
contesto, la tragedia di Meredith Kercher, la studentessa inglese
massacrata a Perugia nel 2007 per il cui assassinio è in carcere
Rudy Guede, condannato in concorso con complici che complici non
possono essere, vista l’assoluzione definitiva di Amanda Knox e
Raffaele Sollecito. La malattia sta nella rincorsa alla sentenza
perfetta: nell’inesauribile produzione di appelli e controappelli
che sfociano in verdetti contraddittori e, nell’insieme,
incomprensibili.
Michele Ainis, su queste colonne, ha osservato
come l’appello in molti Paesi europei sia una regola assai
circoscritta e come, negli Usa, la Corte suprema dirima 80 casi
l’anno, mentre qui la nostra Cassazione ne fronteggia 80 mila (ed è
a volte tentata di entrare nel merito, come su Perugia, tramite la
porticina dei difetti di motivazione nelle sentenze esaminate in
punto di legittimità). Eliminare l’appello in caso di assoluzione
e limitarlo fortemente in caso di condanna potrebbero essere vie
d’uscita plausibili. Non si tratta di dare addosso ai giudici ma di
modificare le procedure, non di dare la caccia all’errore ma di
smontare qualche muro del labirinto.
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