Corriere della Sera 19/04/15
Giorgio Napolitano
Gentile direttore, alla vigilia del
settantesimo anniversario della Liberazione, il Corriere si chiede, e
mi chiede, se si può ritenere che l’Italia sia pronta a celebrarlo
con autentico spirito unitario, dopo tante polemiche divisive. A me
pare di poter constatare oggettivamente come nel corso di questi anni
— rispetto, ad esempio, a quando nel 2008 celebrai il 25 aprile a
Genova — certe polemiche si siano stemperate. Si avverte assai
meno, innanzitutto, quello sfidarsi e confrontarsi duramente tra
esaltazioni acritiche della Resistenza e clamorose rivelazioni dei
suoi lati e momenti oscuri, che per un certo tempo avevano tenuto il
campo.
Si è fatto largo un approccio più aperto e problematico
alle complessità della lotta di Liberazione, si è compreso di non
doverne occultare i limiti e le ombre, e di conseguenza sono anche
scemate le rappresentazioni in negativo di quella straordinaria fase
di riscatto nazionale come se si fosse trattato di un «mito» da
sfatare.
Hanno fatto breccia, io credo, nell’opinione pubblica
il recupero e la valorizzazione di dimensioni a lungo gravemente
trascurate del processo di mobilitazione delle energie del paese che
si dispiegò per difendere l’onore e riconquistare la libertà e
l’indipendenza dell’Italia: la dimensione cioè del contributo
dei militari, sia delle forze armate coinvolte nella guerra fascista
e poi schieratesi eroicamente (basti fare il nome di Cefalonia)
contro l’ex alleato nazista, sia delle nuove forze armate
ricostituitesi nell’Italia liberata (che ebbero a Mignano
Montelungo il loro battesimo di fuoco). L’immagine della Resistenza
si è così ricomposta nella pluralità delle sue componenti: quella
partigiana, quella militare, quella popolare. E in questa accezione
più vera e unitaria, essa diventa parte integrante di quel più
generale recupero della nostra memoria storica e identità nazionale,
che fu il segno e il risultato delle celebrazioni del
Centocinquantenario dell’Unità d’Italia.
E non poco ha
significato, anni fa, anche l’apporto di uno storico rigoroso e
indipendente come Claudio Pavone nell’analizzare le molteplici
valenze della lotta di Liberazione nell’Italia «tagliata in due»:
anche quella della «guerra civile», senza contrapporla ad altre,
innanzitutto a quella di decisivo profilo patriottico-nazionale, e
piuttosto cogliendola nel suo intreccio con la valenza di classe e
ideologica che pure concorse ad animare la Resistenza. Quella
valutazione rigorosa dovuta a Claudio Pavone non alimentò ma forse
piuttosto contribuì a ridurre l’impatto che in anni ancora a noi
vicini ebbe un’altra polemica, pur obiettivamente, storicamente
insostenibile, quella sulla «Resistenza tradita».
Sono in
definitiva convinto che il Settantesimo della Resistenza possa essere
sentito come proprio dagli italiani senza alcuna distinzione, e
certamente non come punto di riferimento e patrimonio privilegiato di
qualche singolo partito. E a ciò ha certamente contribuito
l’accresciuta distanza nel tempo che ci separa da quella grande
pagina della nostra vita collettiva, consentendo reazioni più
distaccate rispetto, poniamo, a dieci anni fa o anche meno.
Se
c’è qualcosa che ancora preoccupa è piuttosto il rischio di una
disattenzione, se non distrazione, da parte di molti, di fronte a una
ricorrenza pur così ricca di significati e di implicazioni. Ed è un
peccato, perché celebrando oggi il 25 aprile possiamo trovare in
quell’esperienza motivi forti di orgoglio e di fiducia come
italiani, oltre che rendere memore riconoscente omaggio a quanti
combatterono e a quanti in quei 19 mesi caddero per la libertà e
l’indipendenza — e per la stessa riunificazione — del nostro
paese.
Ancora una sottolineatura e un richiamo voglio fare sul
tema della nostra riconquistata indipendenza, nel suo legame col tema
più che mai vissuto e dibattuto dalla Costituzione repubblicana. Fra
i 3 paesi dell’Asse totalitario, protagonisti aggressivi della
Seconda Guerra Mondiale, l’Italia fu quello che trovò le forze per
affrancarsi — dopo la caduta del fascismo — da un’infausta
alleanza di guerra. E che prese così il suo posto — grazie al
contributo delle sue nuove Forze Armate e della Resistenza — nello
schieramento anti-nazista, come co-belligerante al fianco, in
particolare, delle forze anglo-americane combattenti in Italia.
Riconquistammo in questo modo la nostra indipendenza anche sul piano
istituzionale e culturale, col diritto a darci in piena libertà e
autonomia una Costituzione democratica, elaborata, e nel dicembre
1947 approvata, da un’Assemblea eletta dal popolo. Ben diversa fu
la condizione umiliante in cui toccò al Giappone darsi la sua Carta
sotto l’egida del Generale Mac Arthur. E anche la Germania
occidentale poté adottare soltanto nel maggio 1949 la sua «Legge
fondamentale» quale fu approvata però solo da un ristretto
«Consiglio Parlamentare». Peraltro, si deve dirlo, la Carta tedesca
si caratterizzò per soluzioni che tennero pienamente conto della
tragica esperienza del crollo della Repubblica di Weimar, pure non
ignorata, dai costituenti italiani. I quali però non seppero sancire
le soluzioni da essi stessi pur lucidamente intuite più di due anni
prima delle scelte tedesche, per evitare l’instabilità dei governi
e le degenerazioni del parlamentarismo, per evitare cioè che la
nostra Costituzione nascesse con quel punctus dolens , come lo definì
ancora nel 2008 Leopoldo Elia. Ma questo è un altro discorso...
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