Massimo Gramellini
La Stampa 3 aprile 2015
Se una piccola lezione si può trarre
dalla tragedia innescata dal pilota kamikaze è la precarietà di
certi pregiudizi sedimentati nei secoli. Col passare delle ore emerge
un quadro di superficialità e approssimazione assai poco tedesco.
Andreas Lubitz era andato al lavoro stracciando un certificato di
malattia, e questo rientra ancora nel luogo comune che immagina un
italiano fare esattamente il contrario. Ma com’è possibile che
l’ospedale universitario di Duesseldorf, che lo aveva in cura da
mesi, non avesse sentito il dovere di cautelarsi inviando alla
compagnia aerea una copia del documento che gli impediva di volare?
La privacy, dicono. Ma la privacy smette di essere la priorità,
quando riguarda un uomo che ha in mano il destino di vite che non
sono la sua. Per quanto, secondo i giornali tedeschi, Lufthansa
qualcosa sapeva. Sapeva che nel 2009 una crisi depressiva aveva reso
Lubitz «parzialmente inadatto al volo». Ma cosa significa
«parzialmente»? Che poteva volare solo nei giorni dispari o con la
mano destra?
Dalle prime ricostruzioni della
tragedia affiora una trama fitta di smagliature: informazioni
mancanti, negate, sottovalutate. Adesso si invocano regole nuove, ma
come sempre sarebbe bastato rispettare quelle esistenti. O forse non
sarebbe bastato comunque. Visto dall’Italia, patria del fatalismo,
il dramma che ha colpito un popolo noto per la sua rigidità alimenta
la sensazione che alla fine siamo tutti umani, e che lo siamo allo
stesso modo: imperfetto e irrazionale. Costretti a convivere, e
talvolta purtroppo a conmorire, con i nostri limiti e le nostre
miserie.
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