FILIPPO CECCARELLI
La repubblica 21 aprile 2015
Il derby con Matteo non si è chiuso
ieri ma semmai a questo punto si è riaperto
Me ne vado per tornare. I politici in
genere ragionano così e senza dubbio Enrico Letta può considerarsi
ed essere considerato un animale politico. Uno degli ultimi
esemplari, oltretutto, ad avere dietro di sé una scuola, un codice
di comportamento e soprattutto un senso del tempo e dei tempi che
ieri gli hanno consentito di dosare la sorpresa – all’opinione
pubblica, ma non al presidente Mattarella senza per questo rinunciare
all’opportunità di un rientro, quando ce ne saranno le condizioni,
e perciò quando Renzi si troverà nei guai.
Intanto – e anche questo è molto
politico, per la precisione molto democristiano – Letta annuncia
che si dimetterà dal Parlamento il primo settembre, ovvero circa tra
cinque mesi, che non sono pochi. A Roma, dinanzi a impegni di lunga
scadenza, il buonsenso impone lo scettico motto: “Beato chi ci ha
un occhio”, per dire che tutto può sempre accadere.
Poi, come vuole il costume delle
assemblee rappresentative, il Parlamento respingerà le dimissioni,
che Letta ripresenterà. Con la testa, certo, è già da ora a
Parigi. Ma nel frattempo il Grande Spodestato rimane qui; e se per
caso Renzi, che pure è molto politico e altrettanto democristiano,
pensa di essersi finalmente liberato dell’uomo che, scuro in volto,
nel febbraio del 2014 gli consegnò il campanello del potere come
fosse un topo morto, beh, l’astuto premier smentirebbe senz’altro
questa sua acclaratissima fama.
Quando Renzi ricevette per qualche
minuto i sindacati nella Sala Verde di Palazzo Chigi il portavoce di
Camusso, Gibelli, notò che in anticamera fra i vari ritratti dei
presidenti del Consiglio mancava, o ancora mancava (ma era novembre)
proprio quello di Letta. Per cui ieri sera, invece di chiudersi, il
“derby”, come tristemente usa dire, in realtà ha tutta l’aria
di essersi aperto – con quale vantaggio per la collettività è un
dilemma che gli spettatori non devono necessariamente sciogliere in
questo scorcio di primavera.
Come per i vecchi democristiani
momentaneamente sconfitti (accadde con Dossetti, poi con Fanfani,
quindi con Moro, per certi versi anche con Forlani) la procurata
assenza corrispondeva al più incombente interesse, così come il
silenzio preparava nel migliore dei casi la rivincita e nel peggiore
la vendetta. Ora, quanto l’ex presidente del Consiglio ha detto in
tv a Fabio Fazio nel presentare il suo libro – pretesto,
quest’ultimo, di elegante e distaccata partecipazione alla vita
pubblica – è anch’esso un notevole saggio di soave cattiveria o
pugnace indifferenza rispetto al renzismo di governo e al suo
fondatore appena tornato dagli Stati Uniti carico di successi, ma
anche di incidenti grammaticali.
Passi per la questione di terri- bile
attualità degli sbarchi e di Mare Nostrum, sulla quale del resto
Letta dopo l’ennesimo naufragio era già intervenuto con secca
severità in un tweet due mesi orsono. Al punto che Renzi fu
costretto a replicare: «Strumentalizzare i morti è triste prima
ancora che ingiusto, il problema è la Libia, non Mare Nostrum o
Triton». Passi anche per le critiche alle riforme istituzionali ed
elettorali che non cercano il necessario consenso, sono frettolose e
paiono pasticciate. E passi perfino l’ormai vecchia storia del
colpo di mano che Letta, dice, non si aspettava da parte di Renzi,
per giunta dopo il celebre invito a stare sereno. Quasi impossibile
infatti che si fidasse del giovane e arrembante segretario del Pd.
Anche tenendosi lontano dall’osservanza del culto di Frank
Underwood, ce n’era abbastanza per preoccuparsi. In quel frangente
si farebbe un torto all’ex presidente del Consiglio nel pensare che
stesse girandosi i pollici confidando nella lealtà del segretario
fiorentino. Di sicuro, dopo il patatrak, avrà apprezzato più la
telefonata di Papa Francesco che gli elogi di Napolitano.
A pensarci bene, anche se forse secondo
canoni meno spendibili in serie tipo “House of cards”, la più
raffinata e radicale cattiveria che ieri il prossimo direttore del
dipartimento di studi internazionali parigini ha buttato lì
inavvertitamente sta nella premessa entro cui ha posto la sua scelta:
«Mi dimetto da questo Parlamento sulla base del fatto che torno a
lavorare». Come se lo status, il potere, il comando non
coincidessero più con un qualche esercizio civile. Una implicita
dichiarazione di estraneità, anche qui, che sembra rivolgersi a un
mondo, non necessariamente a un elettorato, che nell’odierno
statuto della politica non riesce più non solo a credere, ma nemmeno
a riconoscersi.
Tutto questo – prima la sparizione,
poi le punzecchiature occasionali, adesso questa specie di
consapevole, ma temporaneo esilio – Renzi lo capisce benissimo. Ma
è abituato male, o quasi viziato, nel senso che i suoi carissimi
oppositori, nella loro varie tribù, si agitano, strepitano,
promettono ogni catastrofe, ma poi finiscono sempre per dividersi e
alla fine per motivi che non si immaginano così nobili si adattano
alla realtà e gli fanno fare quello che vuole.
Enrico Letta, almeno, è solo. Però è
un politico, quindi aspetta, e guarda, e al momento giusto ci sarà
lui, e non loro.
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