Il progetto di riforme Renzi-Boschi non è ipocrita e consente di superare il bicameralismo
La riforma del bicameralismo proposta da Matteo Renzi è tanto
necessaria quanto difficile da digerire, sia per i corpi elettivi sia
per le burocrazie parlamentari. Ha, effettivamente, già cambiato «il
verso» di un dibattito segnato per troppo tempo da una notevole
ipocrisia (è una delle cose che ho provato a documentare, meglio di
quanto possa fare qui, in La politica liberata. Perché, forse, questa è la volta buona, il Mulino, in libreria a giugno).
Che
il bicameralismo paritario sia non solo inutile, ma contribuisca
addirittura a indebolire il ruolo del Parlamento, lo si capisce vedendo
come si svolge ormai, di norma, l’approvazione delle leggi collegate
alle manovre di bilancio: con l’alibi della lunghezza del procedimento
bicamerale, vengono esaminate, di fatto, da una sola commissione di una
camera sola, prima di essere sottoposte al voto di fiducia.
Nemmeno ci sono dubbi sul fatto che – con una forma di governo
parlamentare a impianto maggioritario – il Senato ha senso solo se
serve a incorporare nel processo legislativo un «punto di vista» diverso
da quello espresso dai gruppi politici della camera e, più
precisamente, il punto di vista di chi ha responsabilità di governo
negli «enti territoriali», cioè di chi concretamente dovrebbe poi dare
attuazione a quelle leggi.
L’idea che ci possano essere senatori eletti direttamente che
«rappresentano i territori», rispetto a deputati che «rappresentano gli
orientamenti politico-partitici» è, a sua volta, una bufala. Basta aver
osservato una sola volta le elezioni del Senato e della Camera dei
Rappresentanti negli Stati Uniti per capirlo. Benché il primo fosse nato
come organo di garanzia federale, con due componenti per ogni stato, da
quando i Senatori vengono eletti direttamente dai cittadini, hanno un
profilo ideologico (liberal o conservatore) ancora più netto dei
secondi, i quali hanno un rapporto più stretto con «il territorio».
D’altro canto, molti autorevoli colleghi, costituzionalisti e
politologi, sanno da sempre che l’organo costituzionale che con maggiore
efficienza ed efficacia svolge una funzione di rappresentanza degli
«enti territoriali» nel processo legislativo è il Bundesrat tedesco,
proprio perché è costituito da «delegati» dei Länder e non da «senatori»
dotati a titolo individuale dello status di parlamentare.
Ciononostante, dalla prima bicamerale (Bozzi, 1982) all’ultima
commissione di saggi (Quagliariello-Violante, dicembre 2013), nel
dibattito italiano sul bicameralismo si è sempre scartata la soluzione
più ovvia, e si è invece sempre tenuto fermo un assunto: si devono
mantenere in ogni caso in vita due distinti corpi elettivi, dotati di
status equipollente, con annessa doppia filiera di incarichi
parlamentari (presidenze d’aula, di commissione e dirigenza delle
burocrazie interne).
Posso ben dirlo, perché quando nella XVI legislatura ho provato
ingenuamente a sfidare questo assunto presentando un progetto di legge
simile a quello ora depositato dal ministro Boschi, mi sono trovato
davanti a un muro impenetrabile, compatto e trasversale, giustificato,
nella migliore delle ipotesi, con l’argomento che i senatori non
avrebbero mai votato il loro suicidio.
Peccato che la difesa ad oltranza del «corpo senatoriale a tempo
pieno», posta a premessa di qualsiasi altro ragionamento, non produca
solo maggiori spese, ma renda anche la riforma del bicameralismo un
pasticcio. Partendo da lì, dalla equivalenza di Senatori e Deputati, si è
sempre finito per dare al Senato funzioni che, nei fatti, contraddicono
il principio secondo cui «solo la Camera dà e toglie la fiducia al
Governo», o per inventare procedure che complicano ulteriormente il
processo legislativo invece di semplificarlo.
Il progetto Renzi-Boschi, grazie alla forza di cui oggi dispone il
leader del Pd, squarcia dunque, per la prima volta, il velo
dell’ipocrisia e imposta correttamente i termini di fondo della
questione. Si può discutere se non sia opportuno prevedere, nel Senato,
una quota maggiore di consiglieri regionali rispetto ai sindaci
(personalmente ne sono convinto) ed è certamente opportuno discutere dei
quorum da modificare, alla Camera, per evitare che le istituzioni di
garanzia cadano nelle soli mani dei partiti di maggioranza.
Ma il progetto regge – e regge benissimo – solo se rimane chiaro che
lo status dei senatori è quello di «delegati degli enti territoriali»,
meglio ancora se sostituibili. Da questo punto di vista, quando si
pongono come paletti (si spera, davvero) insuperabili che i senatori non
siano eletti direttamente, che non abbiano indennità e svolgano
contemporaneamente un’altra funzione rappresentativa o di governo, non
si parla solo alla pancia degli italiani (forse anche questo): si
definisce correttamente la natura che il nuovo Senato deve assumere se
si vuole davvero, al tempo stesso, snellire e dare più forza al
Parlamento.
Nessun commento:
Posta un commento