La Repubblica - 13/5/2014
RAIMONDO BULTRINI
Dopo oltre un mese
di votazioni con più di 551 milioni di elettori, i primi exit poll
creano scompiglio La coalizione nazionalista del Bjp a un passo dalla
maggioranza assoluta Un’incognita per il caso marò
Doveva essere un’onda e potrebbe
essere un ciclone. Dalla tolda di Madre India, la dinastia Gandhi da
dieci anni al timone del governo e da oltre sessant’anni
alternativamente al potere, ha visto ieri avvicinarsi una nube ancora
più minacciosa di quella già attesa con rassegnazione da 35 giorni.
Allo scoccare delle ore 18 ore locali, quando anche l’ultimo
elettore ha schiacciato il pulsante della celebre macchinetta di voto
elettronico Evm, sono partiti i primi exit poll che vedono la
coalizione della destra induista
del Bjp di Narendra Modi ovunque in
testa con oltre 280 seggi sui 543 del Parlamento Lok Sabha. Allo
stesso tempo, le poltrone rimaste al partito del Congresso di Sonia,
Rahul e Priyanka Gandhi si sarebbero ridotte a 101, comprese quelle
degli alleati regionali della coalizione fino a ieri maggioritaria,
mentre il partito dell’uomo qualunque “Aam Aadmi” di Arvind
Kejriwal data a 3, massimo 7 seggi. Ce n’è abbastanza per
autorizzare la miriade di commenti già avviati da tv e giornali
sulla fine della dinastia, data già per affondata alla vigilia
stessa del voto. In teoria per ora l’effetto Modi è solo virtuale,
grazie a qualche centinaia di migliaia di elettori campione che
secondo i sondaggisti potrebbero sbagliarsi di un tre per cento al
massimo. Ciò non toglie che la maggioranza assoluta attribuita alla
sua alleanza sia verosimile, a conferma del potere travolgente di
quest’uomo che da bambino vendeva il thé sui treni, a 50 anni ha
preso la guida del Gujarat e ora porta i falchi della destra induista
e liberista alla testa della federazione di 28 Stati, che stanno per
diventare 29 a giugno con la nascita del Telangana. Fin da quando è
sceso in campo, le corporazioni finanziarie e industriali indiane che
possiedono gran parte di giornali e tv hanno appoggiato pesantemente
e senza limiti di spesa la campagna di Modi for premier, dopo aver
ricevuto per molti anni un trattamento di favore nel suo Gujarat,
diventato un modello di sviluppo per il resto del Paese. Se
confermati, i gli exit poll significano che non ha avuto nessuna
presa o quasi la campagna puntata sulla fine dell’armonia etnica e
religiosa in caso di vittoria dell’ultrareligioso Bjp, e che gli
indiani — hanno votato in 551 milioni, oltre il 60 per cento degli
aventi diritto — bocciano in pieno la politica economica del
Congresso.
La dinastia più potente dell’India
paga anche il prezzo dell’immagine da “principe indeciso” che
proietta ormai da anni Rahul Gandhi, un eroe del popolo emarginato
mentre la coalizione retta da sua madre Sonia abbassava il tasso di
crescita dal 10 al 5 per cento, alzava i prezzi e infilava uno
scandalo di corruzione dietro l’altro. Rahul non è mai stato
presentato — né voleva presentarsi — come il candidato ufficiale
alla poltrona di premier, nella consapevolezza che questa non sarebbe
andata comunque al Congresso a meno di miracoli. Modi ha già
ringraziato con enfasi i suoi sostenitori «rimasti ore e ore sotto
al sole bruciante per dare forza alla nostra democrazia», e si
appresta a godere il risultato finale, anche se per ora la sua
coalizione sembra avere appena una manciata di posti in più dei 272
previsti come minimo per la maggioranza. I disastrosi risultati
economici dell’avversario gli hanno dato facile gioco durante tutta
la campagna elettorale, ma è stato soprattutto sul «partito di
mamma e figlio», come ha detto più di una volta ironicamente nei
comizi, che si è esercitata la sua abilità oratoria, puntando al
cuore debole di un sistema basato sulle dinastie e non sui meriti.
Il Modi ultrareligioso, ritenuto
responsabile delle violenze di strada anti-musulmane di 12 anni fa
nella capitale del suo Stato, Amedabad, che causarono oltre 1000
morti, ha lasciato nella stalla durante tutta la campagna i cavalli
di battaglia della destra induista, affidando a poche righe nel
programma elettorale uno dei temi più caldi, la possibile ripresa
dei lavori per il tempio del dio Ram nel posto della Moschea Babri di
Ayodhya, che di vittime ne provocò più di 3000. Anche a livello
internazionale, nonostante l’attuale status di “persona non
grata” per il suo ruolo nelle sanguinose rivolte del 2002, Modi ha
offerto di sé un’immagine di apertura, che l’Italia avrà modo
di sperimentare presto con il seguito della vicenda dei due marò
italiani Latorre e Girone. A fine luglio è prevista infatti la prima
udienza della Corte Suprema sul loro caso, e l’atteggiamento del
governo, eventualmente quello di Modi, sarà determinante. Il
papabile premier finora si è limitato a usare il caso dei nostri
soldati accusati di aver ucciso due pescatori del Kerala per
punzecchiare l’”italiana” Sonia che li avrebbe aiutati a
sfuggire all’autorità delle leggi indiane per lasciarli liberi
nell’ambasciata.
Ma molti sono invece convinti che,
finite le strategie di campagna elettorale, Modi saprà meglio del
Congresso scendere coi piedi per terra, e oltre a «perdonare» gli
Stati Uniti per avergli negato finora il visto, saprà risolvere il
caso Marò senza temere conseguenze per il suo potere, con l’occhio
magari rivolto agli affari che potrebbero nascere da una linea più
morbida verso l’Italia e con tutti gli altri potenziali investitori
nella “sua” India. L’ascesa di Modi è infatti decisamente
basata sull’effetto della ripresa economica e del rilancio
dell’occupazione, e la borsa valori di Mumbai non è mai stata così
in fibrillazione come in questi giorni, con un effetto a catena sulla
rupia che sta riguadagnando punti su punti. Per ora, non resta che
attendere questo venerdì, quando in poche ore gli Evm scaricheranno
i 551 milioni di voti registrati nella loro memoria elettronica e si
saprà chi va alla guida di un miliardo e 200 milioni di anime.
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