giovedì 15 maggio 2014

Bloccare all’origine la rotta di Lampedusa.


Il Corriere della Sera 
15 maggio 2014


L e drammatiche testimonianze degli uomini dello Stato impegnati nell’operazione Mare Nostrum non possono essere ignorate. I marinai che lunedì scorso hanno salvato 240 naufraghi — e recuperato almeno 17 salme — raccontano una situazione insostenibile. Basta ascoltare la denuncia dell’elicotterista Vincenzo Romano, raccolta sul Corriere da Andrea Pasqualetto: «Qui è un inferno, bisogna esserci per rendersene conto. È un inferno di proporzioni enormi che solo chi fa il nostro lavoro può capire».

Non è possibile fare come se tutto questo non stia accadendo. Lampedusa è al centro di una vera e propria crisi internazionale. Che va affrontata e risolta. Invece finora la reazione prevalente è l’ipocrisia. Salviamo i migranti dal mare e lasciamo che spariscano, verso il cuore di un’Europa pilatesca che si disinteressa di quel che avviene nel Canale di Sicilia e nel luogo dove la crisi ha origine: la sponda africana e mediorientale del Mediterraneo.

Salvare i naufraghi è un dovere. Ma non basta. Bisogna chiudere la rotta di Lampedusa. Invocare la povertà dei migranti non è sufficiente. La carità va sempre praticata. Ma la dignità non è un valore meno importante. Il divario tra Nord e Sud del mondo non si colma salendo su un barcone, mettendo la propria vita e quella dei propri cari nelle mani degli scafisti, cioè di mercanti di carne umana, e affidandosi ai capricci del caso e ai cavilli del diritto, per cui approdare in un lembo di terra vicino alle coste africane dà accesso al mondo che va dalla Sicilia alla Scandinavia. Un mondo che è certo infinitamente più ricco, ma che in questo momento non ha bisogno di manodopera (anzi ha un eccesso di manodopera), e che prima rinchiude i disperati in campi strapieni e disumani, per poi destinarli spesso al ruolo di manovali della malavita o del lavoro nero.

Non è in discussione il diritto di asilo per i profughi. A maggior ragione per i profughi della guerra siriana, da cui l’Occidente ha distolto gli occhi. Ma la dignità di un profugo non può essere affidata a un mercante di schiavi. I Paesi al confine della Siria, a cominciare dalla Turchia, ospitano già milioni di siriani. Salvare loro la vita è un dovere della comunità internazionale. Ma la salvezza non passa dalle carrette che percorrono il Canale di Sicilia.

Non si tratta ovviamente di rimpiangere Gheddafi, e tanto meno i suoi aguzzini, che per anni hanno esercitato sui migranti e sui profughi ruberie e violenze. Ma è chiaro che Frontex, l’impotente agenzia europea che dovrebbe fermare i flussi clandestini, non può prescindere da una politica molto più ambiziosa rivolta a stabilizzare i nuovi governi nordafricani e a costruire con loro partnership e accordi seri. La tragedia che si consuma tra la Libia e Lampedusa è uno dei frutti avvelenati del collasso di Stati — non da ultimo la Somalia — in cui si sono insediati gli estremisti islamici, che approfittano della debolezza del potere centrale per occupare intere regioni e imporre la propria legge, sollevando ondate di fuggiaschi. Si tratta di una questione epocale, che richiede un impegno lungo e difficile, e anche un consenso convinto dalle opinioni pubbliche. Oggi questo consenso non c’è. L’aria tira semmai verso il disimpegno e l’isolazionismo. Le notizie dei morti in mare generano tentativi di strumentalizzazione, che sfruttano da una parte il senso di colpa, dall’altra l’indifferenza e l’allarme sociale per l’immigrazione. Se la lotta per stabilizzare il Sud del Mediterraneo appare oggi difficilissima, da qualche parte bisognerà pur cominciarla. Fermare la rotta di Lampedusa, non sbarrando la porta nell’ultimo miglio ma chiudendola sulle coste da cui parte il traffico di vite umane, è il primo passo. Rimandarlo non è più possibile

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