La Repubblica - 13/5/2014
ENRICO DEAGLIO
Il mito di Marcello uomo di mafia con
la reputazione del manager colto
Sei anni fa, in una nota pizzeria di
Milano, mi accadde di incontrare Marcello Dell’Utri. Sedeva a un
tavolo, coperto da due muscolosi guardaspalle .
Mi guardò in cagnesco. Poi si alzò,
inforcò i Rayban neri, si abbottonò il doppiopetto rigato marrone
e, giunto davanti al mio tavolo, si tolse gli occhiali con un ampio
gesto e fece, a voce alta: “Eccomi, sono la sua vittima. Ma se mi
conoscesse meglio, non scriverebbe quello che scrive”. Mise gli
occhiali nel taschino, con una stanghetta fuori: “Comunque,
complimenti; lei scrive molto bene” e se ne uscì, teatralmente. II
brusio del locale era improvvisamente cessato, il cameriere era
sbiancato, come quando nel saloon entra lo Straniero e mormora: “Dite
al Condor che lo sto cercando”.
Non c’è dubbio che avesse una
reputazione, Marcello; e non solo di raffinato bibliofilo. Era una
caricatura, ma nello stesso tempo faceva un po’ paura. E infatti,
non aveva avversari politici: io perlomeno non ne ricordo nessuno.
Ora che è stato definitivamente condannato (“fin dagli anni
Settanta fu l’ambasciatore di Cosa Nostra a Milano”) gli italiani
saranno costretti probabilmente a farsi delle domande scomode. Tipo:
ma come è stato possibile? La mafia nel consiglio di amministrazione
della Fininvest? La mafia
dietro la costruzione di Forza Italia?
In effetti la sua storia, anzi la sua
doppia storia, fa paura. Giovane palermitano al servizio della mafia,
viene assegnato nel 1972 a curarne gli affari sulla piazza milanese.
Cosa Nostra si attacca al palazzinaro più importante dell’epoca,
lo minaccia di morte, ma Dell’Utri si offre di risolvergli il
problema. Diventa il suo braccio destro, trasforma la villa di Arcore
in una foresteria di latitanti (non c’è boss che, all’arrivo a
Milano, non vada ad omaggiarlo), è molto attivo nelle pubbliche
relazioni. Secondo la Criminalpol, che nel 1981 stila un famoso
rapporto, i Dell’Utri (Marcello e il fratello gemello Alberto) sono
all’apice delle operazioni mafiose sotto la Madonnina. Riciclano,
investono, sono coinvolti in bancarotte colossali come quella della
Bresciano costruzioni o della Venchi Unica, in spericolate operazioni
immobiliari, addirittura in contatto con una banda di sequestratori
sardi. Secondo Falcone, il livello di investimento della mafia
siciliana sulla piazza di Milano è di proporzioni imponenti e
Vittorio Mangano è uno dei personaggi di spicco. Secondo Borsellino,
che ci tiene a farlo sapere a due giornalisti francesi (gli unici che
appaiono molto informati) Dell’Utri e Mangano sono i terminali
milanesi della filiera finanziaria mafiosa palermitana. Ma tutte
queste cose, non si capisce perché, non diventano pubbliche. Eravamo
disattenti.
Dell’Utri Marcello compare
pubblicamente sulla scena all’inizio degli anni Novanta come
l’amministratore delegato di Publitalia (“il carismatico manager
capace di infondere motivazione ed energia ad una falange di
venditori di spot”). Ma evidentemente non è un buon manager; tra
corruzione, falsi in bilancio e malversazioni, Publitalia nel 1993 è
sull’orlo della bancarotta e deve essere messa in amministrazione
controllata. Berlusconi, che pure ha fama di imprenditore attento e
capace, non solo non lo manda via, ma anzi gli affida la sua carriera
politica. E Dell’Utri vince le elezioni! Con un particolare
inquietante. Dieci giorni prima del voto del 1994, quando ancora
Dell’Utri non era un personaggio pubblico, ma Berlusconi andava
dicendo che i magistrati volevano fare un “golpe bianco” e
impedirgli la vittoria, il presidente della Commissione Antimafia
Luciano Violante si lasciò scappare che Dell’Utri sarebbe stato
arrestato, dalla procura di Catania, per traffico di armi e droga. Ma
non successe, e Violante dovette dimettersi. Dell’indagine di cui
parlava Violante, non si seppe più niente. Così come delle altre,
sulla mafia a Milano, anche perché i due magistrati che le
seguivano, erano saltati in aria.
E così cominciò la leggenda di
Marcello. Mafioso? Addirittura coinvolto nelle stragi? Ma quando mai,
è un intellettuale che ama i libri. È un cattolico praticante.
Certo, ha conosciuto dei ragazzi poveri a Palermo, ma solo perché
faceva l’allenatore di una squadra di calcio. È buono, non sa dire
di no, e non si pente di aver aiutato Vittorio Mangano. Diventa
senatore, poi deputato europeo, promuove la Biblioteca di via Senato,
scicchissimo luogo di mostre, teatro ed eventi. Conferenzieri ed
attori fanno la fila per esibirsi di fronte a lui. Viene nominato
direttore artistico del Teatro Lirico. Fonda i “circoli del buon
governo”, per educare i giovani a diventare classe dirigente, anima
giornali raffinati, controlla saggiamente il mercato della
pubblicità, viene intervistato come uno statista, si propone come
mediatore di affari, controlla scrupolosamente che i candidati alle
elezioni del suo partito siano persone intelligenti e oneste, scopre
dei diari che dimostrano che Mussolini era un buono e vero patriota
(“ebbene sì”, dichiarò a Bruno Vespa, “la storia andrà
riscritta”; “sono falsi ma pubblichiamoli,” disse la Bompiani),
scopre un capitolo inedito del Petrolio di Pasolini, accetta con la
pazienza di Giobbe il calvario cui i giudici comunisti lo
sottopongono, si paragona a Socrate incarcerato e condannato e quando
qualcuno, timidamente, gli chiede che cos’è, secondo lui, la
mafia, risponde secco, permettendosi il gergo triviale: “Tutte
minchiate, la mafia non esiste”. E se lo dice un intellettuale
raffinato, come non credergli?
E come si poteva davvero pensare che la
mafia siciliana prendesse il potere a Milano, la capitale morale, con
la sua borghesia illuminata, il suo mondo finanziario di antica data,
il controllo di un’opinione pubblica agguerrita? La vicenda di
Marcello Dell’Utri ha davvero dei risvolti grotteschi. Nel film A
qualcuno piace caldo , il boss “Ghette” convoca il clan a Miami
sotto le insegne di un convegno degli “Amici dell’opera
italiana”, qui abbiamo il martire della giustizia in un letto
d’ospedale a Beirut che tiene sul comodino La divina commedia e I
promessi sposi, e si affida al potere falangista perché allevi le
sue pene. Manca solo Scajola ministro degli interni.
È lui che è un genio o siamo noi che
siamo fessi? Quando un giorno il nipotino ci chiederà: “Nonno, ma
com’è che l’Italia per vent’anni venne governata dalla
mafia?”, ci toccherà rispondere: “Beh, non esageriamo. Le cose
furono molto più complesse”.
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