Marilisa Palumbo
Corriere della Sera 15 maggio 2014
MILANO — Tra il 32 e il 34 per cento.
Profumano di vittoria gli ultimi sondaggi del Pd prima dell’embargo.
Eppure. Provate a sommare le forze di centrodestra. Sono lì, a una
incollatura dai democratici, inchiodati alla soglia psicologica di un
terzo degli elettori. Incatenati, per dirla con Claudio Cerasa, che
nel suo Le catene della sinistra, a quei vincoli dà un nome, uno per
uno. Quasi trecento pagine di cui la parte più interessante non è
tanto quella sempre attuale — solo qualche giorno fa il ministro
della Cultura, Dario Franceschini, ha parlato di cattiva maestra
televisione — della sinistra al cachemire schiava del «partito
della cultura», ma quella dell’asse con i sindacati, la
magistratura e la grande industria. È lì che si capisce come un
campo che pure da anni si dice riformista sia percepito come
immobilista e per questo condannato all’immobilismo
nell’elettorato. Ancorato al voto dei pensionati, ma incapace di
sfondare tra i 30-40enni, «un elettorato liquido, post ideologico,
maggioritario, potenzialmente rivoluzionario e figlio di una grande e
silenziosa pacificazione». Proprio quell’elettorato per il quale
nelle intenzioni il Pd era nato, e con il quale invece si dimostra
più abile a parlare uno come Grillo. Ma dove nascono queste catene?
Cerasa offre una chiave interessante: il peccato originale sta nel
passaggio tra Prima e Seconda repubblica. Unica forza rimasta in
piedi tra le macerie di Tangentopoli, il centrosinistra si
«ammanetta» alle procure. Quello di cui ha bisogno — scrive
Cerasa — è un «nuovo collante per forgiare la sua identità», e
trovarlo «nell’azione purificatrice dei magistrati è una
tentazione alla quale, in quel momento storico, nessun leader di
centrosinistra può resistere». Di qui anche il rifiuto di
affrontare la riforma di un sistema che pure non solo per Berlusconi,
ma per la maggioranza del Paese, non funziona come dovrebbe. Ed è
sempre durante Mani Pulite che il vecchio establishment «individua
nella galassia che ruota attorno al partito degli eredi del Pci lo
strumento migliore con cui provare a ridare una forma al Paese». Da
quel momento «il tecnocrate... il banchiere, il potere forte diviene
un simbolo della sinistra». Così Checco Zalone chiama la risata
sicura quando parla dei comunisti ricconi mentre c’è un Paese
fatto di piccole imprese, lavoratori precari, non coperti
dall’articolo 18, che da decenni non si sente rappresentato da una
sinistra che da un lato va a braccetto con Confindustria e dall’altro
non si rende conto «che il mondo sindacale andava da una parte e il
mondo dei lavoratori, dall’altro». E ora, riuscirà il «governo
Bim Bum Bam», come lo chiama Cerasa, a spezzare le catene? Qualche
segnale c’è — dallo scontro con i magistrati sui salari (che
l’autore indica essere cresciuti del 60% in 10 anni) a quello coi
sindacati sulla concertazione —, ma è ancora molto presto per
dirlo. Di certo per augurare buona fortuna a Renzi meglio non parlare
di rupture, ché a Sarkozy, quella volta, bene non portò .
Nessun commento:
Posta un commento