Corriere della Sera 17/05/14
Goffredo Buccini
Le pupille sono due spille nere sotto il turbante arancione. La
lingua è quell’esperanto da naufraghi della vita buono a qualsiasi
latitudine. Le storie si rassomigliano tutte: «Amigo , quindici ore
al giorno raccolgo zucchine e cocomeri, anche domenica, piegato in
due: occhi bruciano, schiena urla. Sette, otto anni così. Io omo di
carne, no ferro. Allora prendo piccola sostanza, quando pausa da
lavoro: una, due volte. E schiena bene, occhi bene».
La davano
ai kamikaze giapponesi, la danno ai cavalli da corsa. Qui la prendono
i nuovi schiavi. La «piccola sostanza» è la metanfetamina,
spintarella magica che fa scordare la fatica ma alla lunga mangia
l’anima; l’alternano col bhukki , il bulbo di papavero in
polvere, bevuto col chai : sospende il dolore, avvolge il cervello.
Nelle terre che furono palude e adesso sono la retrovia contadina di
spiagge e ville per romani ancora benestanti e russi spendaccioni, è
questa la droga dei sikh, gli ultimi degli ultimi. Trent’anni fa
sono immigrati dal Punjab i primi indiani miti e sorridenti, si sono
tirati appresso parenti e amici, e pian piano ci hanno rimpiazzato
nei compiti più ingrati, quelli da paria del mondo dei consumi che a
noi facevano schifo. Inginocchiati tra le zolle, col sole che cuoce
la nuca. Tre euro l’ora, spesso in nero, quando la paga c’è.
Diritti zero. Molti chiamano «padrone» il datore di lavoro e prima
di parlargli fanno due passi indietro chinando il capo.
Sono
trentamila nell’Agro Pontino, ottomila solo a Sabaudia. Sudano,
pregano, amano e muoiono sotto il nostro naso, e di loro, fino a
pochi anni fa, non è mai importato un accidente a nessuno. Alle
sette della sera, quando anche il padrone più infame li lascia
liberi, li vediamo pedalare lungo la Litoranea, sfiorati
pericolosamente dalle macchine, tra San Felice e Borgo Grappa, in
mezzo al Parco del Circeo, fino all’ex residence Bella Farnia e a
stambugi che dividono coi connazionali, dove stravolti guardano Sikh
Channel , sfogliano riviste sikh, sognano ritorni in patria e dive
bollywoodiane ad attenderli. Fino a pochi anni fa, un mondo a
parte.
«Per sopravvivere ai ritmi massacranti e produrre di più
sono costretti a doparsi. Se ne vergognano, perché la loro religione
lo vieta. Ma per molti è l’unico modo per sopravvivere», racconta
Marco Omizzolo, giovane sociologo di Sabaudia, responsabile
scientifico della onlus In Migrazione che ha raccolto decine di
racconti dei lavoratori sikh tra Sabaudia, San Felice e Terracina e
ha deciso di rendere pubblico il caso. Omizzolo, che è anche
presidente provinciale di Legambiente , è il primo ad avere rotto il
silenzio sui sikh: per narrarne l’epopea, in un saggio
documentatissimo, nel 2009 ha lavorato due mesi nei campi con loro e
vissuto sei mesi in Punjab. Cinque anni dopo, la fiducia della
comunità ha prodotto queste testimonianze, per ovvie ragioni di
sicurezza coperte da iniziali nel dossier. K.: «Alcuni indiani
pagano per piccola sostanza, per non sentire dolore a braccia, gambe,
schiena». La tariffa è di circa dieci euro a grammo. N.: «Non è
droga vera come prendono italiani, è contro dolore». Il bukkhi
costa circa il doppio. H.: «Amici comprano da italiani, mettono in
acqua calda e prendono come the. Si può anche mangiare ma fa più
male». Le prime soffiate sono venute proprio da queste campagne, la
Procura di Latina è stata informata e a fine gennaio la Finanza
della brigata di Sabaudia ha sequestrato 300 grammi di metanfetamina
e sei chili di bulbi di papavero bloccando due giovani sikh su un
furgone di frutta e verdura (stessa roba scoperta dai carabinieri tre
mesi dopo a lavoratori cinesi e vietnamiti di Reggio Emilia: il
doping dei nuovi schiavi d’Italia si va diffondendo in fretta).
Dice J. Singh: «Contento che carabinieri pigliano indiani con
droga». Molti sikh evitano di parlare in prima persona e si
rifugiano dietro il racconto di «amici» che «prendono droga
mattina e poi pomeriggio per lavorare tanto e poi però stanno troppo
male».
In verità qualcosa sta cambiando attorno al nucleo
storico della comunità. Alcuni sikh cominciano a diventare meno
invisibili, il sacrificio della prima generazione sta dando frutti:
solo a Sabaudia hanno aperto una mezza dozzina di negozi e
alimentari, per la prima volta sono concorrenti degli italiani, i
loro figli vanno a scuola. Qualcuno si perde, qualcuno entra nel
circuito dello spaccio, porta la droga ai connazionali. Ma
l’iniziativa della onlus serve anche a contrastare l’idea rozza
di «indiani tutti spacciatori» che va diffondendosi. Maurizio
Lucci, sindaco rieletto un anno fa con una lista civica di destra,
usa parole molto più caute: «Negli ultimi quattro, cinque mesi sta
passando tra loro questa droga derivata dal papavero, ci sono stati
diversi sequestri. È la prima volta che abbiamo questo problema e mi
fa un po’ paura, perché la loro è una comunità forte, sono
obbligato ad accoglierli». Obbligato? Non pare contento. «Ma è
perché attorno a loro c’è lo sfruttamento, si crea un problema
sociale. Lo so che prendono le metanfetamine, so che sono vittime. Ma
noi stiamo per riaprire la stagione turistica, sta tornando la bella
gente. Questa è Sabaudia, lo capisce?».
È Sabaudia anche via
Ayrton Senna, periferia di centri commerciali dove a inizio estate si
comprano ombrelloni e panche da giardino a buon prezzo. Qui si
consuma la battaglia sul Gurudwara , il nuovo tempio. «Avevano il
permesso per un laboratorio di dolci, perciò gliel’abbiamo
bloccato», spiega Lucci. Un consigliere della destra, Piero
Giuliani, era andato a scattare foto per provare «l’abuso degli
indiani». Lui dice d’essere stato aggredito, loro che provocava,
di fatto è stato costretto a scappare. Scaramucce incomprensibili
per i «sikh originali», della prima ondata: che ancora pedalano,
ogni sera, sulla Litoranea. Come trent’anni fa, quasi invisibili.
Solo, più stanchi.
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