martedì 6 maggio 2014

In Israele cresce il partito della guerra contro Hamas

Maurizio Debanne 
Europa  

L'ex capo del Mossad, Efraim Halevy, parla apertamente di un'operazione militare contro gli islamisti. Ma nel governo c'è chi invita alla prudenza

Il piano nel cassetto c’è sempre stato. Ma oggi qualcuno ha voglia di metterlo in cima ai dossier sulla scrivania di Benjamin Netanyahu. Stiamo parlando della guerra totale ad Hamas. Militare, non politica. Da quando il movimento islamista ha preso il controllo della Striscia di Gaza, a seguito del ritiro unilaterale voluto nel 2005 da Ariel Sharon, la politica israeliana si è sempre divisa tra chi sosteneva che bisognasse scendere a compromessi con il “nemico” e chi rifiutava di sedersi ad un tavolo in cui non venisse riconosciuto a priori il diritto all’esistenza dello stato ebraico.
Oggi non è la visione politica di Hamas ad essere cambiata, né tantomeno quella dei falchi nel campo israeliano. A mutare sono però le condizioni di salute del movimento islamista, colpito duramente dalla sua espulsione da Damasco, dalla riduzione dei fondi dell’Iran e dal raffreddamento dei rapporti con l’Egitto, che lo ha perfino bollato come “organizzazione terroristica”. Se si aggiunge l’indifferenza della Turchia, e la scarsa voglia dei paesi arabi e islamici di impegnarsi per il futuro di Gaza, l’isolamento può definirsi completo.
«È giunto il momento per il governo israeliano di considerare seriamente l’opzione di distruggere militarmente Hamas. Così eviteremo un giorno che gli islamisti possano prendere il controllo della Giudea e della Samaria (la Cisgiordania, ndr) grazie all’accordo di unità nazionale con al Fatah». Sulle colonne di Yedioth Ahronoth, il quotidiano israeliano più diffuso, l’ex capo del Mossad, Efraim Halevy, toglie il velo su un’operazione che in Israele è caldeggiata da anni: estirpare alla radice Hamas. «Dovremmo pagare un prezzo terribile, anche in termini di vite umane. Ma se riuscissimo nell’impresa, avremmo rimosso una delle principali minacce alla sopravvivenza dello stato di Israele», sostiene Halevy. La debolezza attuale di Hezbollah e l’attenzione dell’Occidente rivolta alla crisi in Ucraina sarebbero due ulteriori elementi a spingere verso questa soluzione.
Va detto che Efraim Halevy non è un falco. Nel suo commento ricorda di aver sempre sostenuto la prima strada, quella del dialogo con Hamas. Ma non nasconde che oggi i tempi sono cambiati, «quando il tuo nemico è molto debole pensare di abbatterlo militarmente è una strada da tenere in considerazione».
Va detto che non tutta l’opinione pubblica israeliana ha accettato questa ipotesi. Il ministro delle finanze Yair Lapid, rivelazione “centrista” delle ultime elezioni, ha spiegato che «anche l’Olp era un’organizzazione terroristica», prima di iniziare a negoziare con Israele, riconoscendo il suo diritto all’esistenza. Un percorso che ora potrebbe essere seguito anche da Hamas.
Il dibattito sulla soluzione militare si riapre, non a caso, a pochi giorni dalla riconciliazione nel campo palestinese tra al Fatah e Hamas, che porterà alla formazione di un governo di unità nazionale nelle prossime settimane e a nuove elezioni entro sei mesi. Non è la prima volta che le due fazioni cercano di riavvicinarsi dal 2007, anno in cui Hamas prese il controllo della Striscia di Gaza. Hamas e al Fatah restano divisi su molti punti, non ultimo lo smantellamento delle forze di sicurezza islamiste, ma si rendono conto che la divisione tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza indebolisce la causa palestinese favorendo solo Israele.
La loro intesa ha inceppato le trattative in corso con lo stato ebraico, peraltro inconcludenti, ma ha il “vantaggio” di ricompattare il fronte palestinese in caso di un confronto militare con Israele. A mediare restano sempre il segretario di stato americano Kerry e l’Europa che stentano come non mai a far ripartire il processo di pace. Serve un miracolo. Chissà, papa Francesco sta per arrivare.

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