L'ex capo del Mossad, Efraim Halevy, parla apertamente di
un'operazione militare contro gli islamisti. Ma nel governo c'è chi
invita alla prudenza
Il piano nel cassetto c’è sempre stato. Ma oggi qualcuno ha
voglia di metterlo in cima ai dossier sulla scrivania di Benjamin
Netanyahu. Stiamo parlando della guerra totale ad Hamas. Militare, non
politica. Da quando il movimento islamista ha preso il controllo della
Striscia di Gaza, a seguito del ritiro unilaterale voluto nel 2005 da Ariel Sharon,
la politica israeliana si è sempre divisa tra chi sosteneva che
bisognasse scendere a compromessi con il “nemico” e chi rifiutava di
sedersi ad un tavolo in cui non venisse riconosciuto a priori il diritto all’esistenza dello stato ebraico.
Oggi non è la visione politica di Hamas ad essere cambiata, né
tantomeno quella dei falchi nel campo israeliano. A mutare sono però le
condizioni di salute del movimento islamista, colpito duramente dalla
sua espulsione da Damasco, dalla riduzione dei fondi dell’Iran e dal
raffreddamento dei rapporti con l’Egitto, che lo ha perfino bollato come
“organizzazione terroristica”. Se si aggiunge l’indifferenza della
Turchia, e la scarsa voglia dei paesi arabi e islamici di impegnarsi per
il futuro di Gaza, l’isolamento può definirsi completo.
«È giunto il momento per il governo israeliano di considerare
seriamente l’opzione di distruggere militarmente Hamas. Così eviteremo
un giorno che gli islamisti possano prendere il controllo della Giudea e
della Samaria (la Cisgiordania, ndr) grazie all’accordo di unità nazionale con al Fatah». Sulle colonne di Yedioth Ahronoth,
il quotidiano israeliano più diffuso, l’ex capo del Mossad, Efraim
Halevy, toglie il velo su un’operazione che in Israele è caldeggiata da
anni: estirpare alla radice Hamas. «Dovremmo pagare un prezzo terribile,
anche in termini di vite umane. Ma se riuscissimo nell’impresa, avremmo
rimosso una delle principali minacce alla sopravvivenza dello stato di
Israele», sostiene Halevy. La debolezza attuale di Hezbollah e
l’attenzione dell’Occidente rivolta alla crisi in Ucraina sarebbero due
ulteriori elementi a spingere verso questa soluzione.
Va detto che Efraim Halevy non è un falco. Nel suo commento ricorda
di aver sempre sostenuto la prima strada, quella del dialogo con Hamas.
Ma non nasconde che oggi i tempi sono cambiati, «quando il tuo nemico è
molto debole pensare di abbatterlo militarmente è una strada da tenere
in considerazione».
Va detto che non tutta l’opinione pubblica israeliana ha accettato questa ipotesi. Il ministro delle finanze Yair Lapid,
rivelazione “centrista” delle ultime elezioni, ha spiegato che «anche
l’Olp era un’organizzazione terroristica», prima di iniziare a negoziare
con Israele, riconoscendo il suo diritto all’esistenza. Un percorso che
ora potrebbe essere seguito anche da Hamas.
Il dibattito sulla soluzione militare si riapre, non a caso, a pochi
giorni dalla riconciliazione nel campo palestinese tra al Fatah e Hamas,
che porterà alla formazione di un governo di unità nazionale nelle
prossime settimane e a nuove elezioni entro sei mesi. Non è la prima
volta che le due fazioni cercano di riavvicinarsi dal 2007, anno in cui
Hamas prese il controllo della Striscia di Gaza. Hamas e al Fatah
restano divisi su molti punti, non ultimo lo smantellamento delle forze
di sicurezza islamiste, ma si rendono conto che la divisione tra la
Cisgiordania e la Striscia di Gaza indebolisce la causa palestinese
favorendo solo Israele.
La loro intesa ha inceppato le trattative in corso con lo stato
ebraico, peraltro inconcludenti, ma ha il “vantaggio” di ricompattare il
fronte palestinese in caso di un confronto militare con Israele. A
mediare restano sempre il segretario di stato americano Kerry e l’Europa
che stentano come non mai a far ripartire il processo di pace. Serve un
miracolo. Chissà, papa Francesco sta per arrivare.
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