martedì 18 giugno 2013

Una triste giornata del rifugiato

 
Giovedì è la Giornata Mondiale del Rifugiato. E’ stato scelto il 20 giugno perché era da anni la giornata africana del rifugiato, quasi a stabilire una solidarietà istintiva con un’area geografica protagonista da sempre di un drammatico e incessante esodo di individui, famiglie, popolazioni intere in fuga da conflitti, carestie, povertà, epidemie, guerre e genocidi. Lo sappiamo bene noi cittadini di un paese che, così vicino alle coste nordafricane, è uno degli approdi naturali di questo esodo verso l’ignoto che vede arrivare, non appena le condizioni del mare lo permettono (soprattutto d‘estate, quindi), centinaia di barconi e gommoni carichi di un’umanità che ha perso tutto  tranne la speranza.
Anche in questi giorni sta succedendo. E il copione si ripete, tristemente identico a quello dell’anno prima e dell’altro anno ancora: gli sbarchi si moltiplicano, i centri di accoglienza scoppiano, sui giornali riesplodono le polemiche. E si ripetono anche le tragedie. Come quella dei giorni scorsi che, secondo testimonianze dirette dei profughi arrivati a Lampedusa, ha visto morire sette persone aggrappate per ore a una gabbia per tonni trascinata da un peschereccio tunisino. Altri sette morti che si aggiungono all’elenco impressionante delle vittime senza nome del Cimitero Mediterraneo: Fortress Europe ha calcolato che dal 1988 ad oggi siano non meno di 20mila le persone morte lungo le frontiere dell’Europa.
Per questo la tragedia di sabato notte tocca le nostre coscienze. Ci interpella. Chiama in causa le nostre responsabilità. Per questo, alla vigilia mondiale della giornata mondiale del rifugiato nella quale sarà importante sottolineare ancora una volta il tema dei diritti di chi fugge, non dobbiamo lasciare questo dramma dentro la nostra coscienza. Dobbiamo urlarlo. Io non so come si possa risolvere totalmente il problema. So che non si può stare zitti.
C’è un mondo che preme alle nostre frontiere, alle nostre porte, ci son volti e storie che lasciano terre dove si soffre, dove ci sono guerre e vittime, dove ci sono persone che chiedono una nuova nazione e una nuova vita. Io dico che è un dramma se questi uomini, queste donne, questi bambini in cerca di un rifugio non trovano risposte adeguate al loro grido disperato, un dramma che non può lasciare indifferente nessuno. Non ci sono alibi, tanto meno quelli della crisi economica che ci ha reso tutti più poveri e che consiglierebbe, secondo alcuni, di rispedire indietro questi richiedenti aiuto, ad alzare muri, a giustificare il rifiuto di accoglierli.
Dicevo che io non so bene come si possa risolvere il problema. Ma so che non è un problema di logistica e che non si può usare quest’argomento per mero calcolo politico. Qui alla Casa della carità di rifugiati che hanno attraversato il mare ne abbiamo ospitati tanti, ne abbiamo condiviso preoccupazioni, speranze, gioie e dolori. Li conosciamo bene. Sono nostri amici, un pezzo della nostra storia. Per questo i  drammi ci colpiscono a fondo e non ci basta scriverne e parlarne. Vorremmo che fossero per tutti un momento di riflessione vera per cambiare la nostra politica sull’accoglienza e porre fine a queste tragedie.

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