domenica 23 giugno 2013

Renzi immagina il suo Pd: ecco come funziona il “modello Open”

Europa 22 giugno 2013

In vista del congresso del Partito democratico, il rottamatore sta lavorando soprattutto su lavoro e forma-partito. Come cambiare dopo l'addio al finanziamento pubblico? L'esempio che viene dalla kermesse torinese somiglia a quello "spazio politico" combattuto da Bersani
In molti si chiedono che partito abbia in mente Matteo Renzi. Il sindaco ci sta lavorando, per farsi trovare pronto nel momento in cui ufficializzerà la propria candidatura a segretario del Pd. Se su molti temi sarà possibile rifarsi a quanto già detto in occasione delle primarie dello scorso anno, con i necessari aggiornamenti, è sugli argomenti più sensibili alla base dem che l’ex rottamatore sta concentrando la propria attenzione, dal lavoro alla forma-partito.
Come ricorda Simona Bonafè a Europa, «la nostra idea di abolire il finanziamento pubblico ai partiti è stata fatta propria anche dal governo Letta. Adesso dobbiamo far capire quale Pd possiamo costruire senza quel finanziamento». Certo non quello attuale. Più probabilmente, un partito che somigli molto a quello che si è ritrovato qui a Torino per #OpenPd: aperto, privo di una struttura organizzativa rigida, spontaneo e, soprattutto, auto-finanziato. E questa due-giorni è qui a dimostrare che “si può fare”. Anche per questo gli organizzatori e i parlamentari renziani presenti sono soddisfatti dell’iniziativa. Consapevoli del fatto che il voler imporre una quota di partecipazione è stata una scelta simbolica che ha colto nel segno.
Il Pd à la Renzi somiglia molto a quello «spazio politico» che Pier Luigi Bersani contesta tanto: un’idea politica univoca rappresentata da un leader, che si sviluppa in periferia e perfino in parlamento attraverso iniziative autonome, non necessariamente dettate dall’alto. Ovviamente, con un coordinamento necessario sulle questioni più importanti. Un esempio è la mozione promossa da Roberto Giachetti alla camera per l’abolizione del Porcellum, una battaglia condotta senza alcuna “imbeccata” da Firenze, nonostante le voci circolate in quei giorni: «È per questo che mi trovo bene a fare politica con Matteo – spiega il deputato romano – quando sa che c’è un obiettivo comune da raggiungere, si fida di chi gli sta attorno e che si occupa di quel tema». Una visione che capovolge l’immagine di un Renzi troppo legato al suo stretto giro di collaboratori (il “Giglio magico”) e diffidente verso tutti gli altri. O, forse, dimostra che l’ex rottamatore ha finalmente capito che per fare il grande salto verso la politica nazionale ha bisogno di delegare anche ad altri l’attuazione delle idee comuni.
La de-strutturazione, nella ricetta renziana, vale anche per la “macchina” del Pd, al centro come in periferia. «Una struttura diversa, più snella, sarà inevitabile, in linea con la riduzione del finanziamento pubblico», spiega Bonafè. E allora più spazio a chi fa politica per passione ed è anche pronto a rimetterci di tasca propria pur di dare voce alle proprie idee. Come chi è venuto a Torino. In questo modo, il Pd sarebbe portato inevitabilmente ad allargarsi, a comprendere più che a escludere, e a non porsi questo obiettivo solo a ridosso delle elezioni. E, ovviamente, non si creerebbe il problema delle regole delle primarie, che dovrebbero essere aperte, apertissime.
E le correnti? Per carità. «Se noi volevamo essere una corrente, a quest’ora avremmo il 40 per cento degli incarichi nel partito», commenta Bonafè, ricordando il risultato delle primarie di ottobre. Anche in questo caso, chi dimostrerà di avere più filo da tessere, tesserà. Senza rendite da garantire, né posizioni da proteggere, all’interno del partito come nei rapporti con le forze nuove che potrebbero avvicinarsi al Pd.

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