sabato 15 giugno 2013

L’ultimo tabù a sinistra

   

Ce ne sono di cose da discutere e cambiare nel Pd. A maggior ragione serve una leadership forte. Ed è grave sbarrare la strada a Renzi cambiando le regole.
Nell’intervista di oggi al Corriere della Sera Bersani torna sul punto: «Questo paese non cresce, non riesce a fare le riforme perché è tarato su modelli personalistici o padronali». (Ci sarebbe da discutere, è per questo che non cresce? Comunque). Il riferimento esplicito è alle “comete” Berlusconi, Monti, Bossi, Grillo, Di Pietro, che «finiscono e aprono vuoti d’aria di sfiducia», ma l’attacco è indubbiamente rivolto anche a lui, avete-capito-chi.
Del resto il documento di qualche giorno fa, sottoscritto da un gruppo di bersaniani, non poteva essere più chiaro, pur senza far nomi, mettendo giù i primi paletti in vista del congresso: no all’uomo solo al comando, basta con il primato della comunicazione, no alla delega prebiscitaria al leader. La leadership tramutata nella sua caricatura, il “populismo leaderistico”, il “modello berlusconiano” al quale ovviamente non bisogna arrendersi poiché porta consenso ma non soluzioni.
Non fosse che la predica arriva dal pulpito di chi ha trasformato il partito in una chiusa oligarchia, concentrando tutto il potere intorno al “caminetto”, gestendo la segreteria come cosa propria, per non parlare dell’ufficio di comunicazione, dei manifesti e dei mezzibusti, sarebbe quasi da prendere sul serio.
Ma in ogni caso sarebbe sbagliata. È infatti un grave errore mescolare i partiti personali e l’importanza di una forte leadership. Si fa confusione anche rispetto riforme istituzionali, che in questo caso non c’entrano. Qui il punto è che il Pd è l’unico partito non personale – e sta bene – ma è anche l’unico partito privo di un vero leader.
Il rifiuto della leadership – indicata come la negazione della democrazia, mentre nella società dei media ne è un presupposto – è l’ennesimo tabù di una sinistra che appare spaventata dal nuovo, che dimostra di aver paura della modernità, farina del diavolo. Ciò non significa che non ci si debba preoccupare del partito, di come debba funzionare per evitare che si riduca ad una pianta rinsecchita, anzi.
Quello della forma-partito è un problema molto serio. È giusto interrogarsi su come si debbano formare le decisioni, in un’epoca che richiede velocità e competenza nell’affrontare problemi complessi, sapendo che è però vitale trovare i modi per coinvolgere nel processo di formazione delle idee, almeno sui grandi temi, la base degli iscritti e degli elettori. È necessario sperimentare forme, linguaggi, strumenti, a partire dalla rete, per evitare che il dibattito nei circoli si avviti intorno a ritualità totalmente autoreferenziali e totalmente inutili. Bisogna aprire le porte, dialogare con le espressioni della società civile, buttare all’aria l’ingessatura delle gerarchie, implementare nuove forme di finanziamento, e porsi – come fa Fabrizio Barca – l’obiettivo di mettere fine all’occupazione dello stato (ai vari livelli istituzionali e amministrativi) da parte dei partiti, compreso il nostro. Ce n’è di cose da fare. Ma questo richiede a maggior ragione una forte figura di riferimento e di guida, richiede che il Pd si doti di un’autorità piena con poteri e responsabilità, in primo luogo per spezzare il potere consociativo – tutti uniti per la conservazione – delle correnti che lo ingabbiano.
Per l’insieme di tali ragioni e obiettivi è necessario un congresso vero e serio, in cui si confrontino proposte alternative e candidati veri alla leadership.
Ogni tentativo di cambiare le carte in tavola, proponendo una separazione tra i ruoli di segretario e di candidato premier, limitando le primarie ai soli iscritti, spezzando in due il congresso – prima le fasi provinciale e regionale, magari su documento unico, poi quella nazionale – nasconde solo il tentativo di impedire il cambiamento di cui il Pd ha bisogno, e di stoppare l’eventuale candidatura di Matteo Renzi. Per questo va respinto.
È chiaro a tutti che la composizione degli iscritti tende a rispecchiare gli assetti esistenti (chi ha preso la tessera negli ultimi anni, tendenzialmente, si è iscritto al “Pd di Bersani”). La favoletta del “congresso dal basso” ha quindi solo l’obiettivo di lasciare la definizione di tutte le cariche territoriali nelle mani dell’apparato e del vecchio patto di sindacato.
Doppiamo dire di no, con forza, e chiedere che il congresso sia invece aperto, come il partito che vogliamo – aperto, non chiuso su se stesso. Le regole ci sono. Chi le vuole modificare desidera solo, non pago di averci condotto alla sconfitta del 25 febbraio, che tutto resti com’è.

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