mercoledì 26 giugno 2013

È ora di fare i conti con la politica di papa Francesco


Il magistero di questo papa può aiutare i politici cattolici a ritrovare il senso della loro missione che è quella di stare nelle istituzioni non per convertire il mondo ma per farle funzionare meglio a servizio del “bene comune”
Penso che i cattolici impegnati in politica debbano fare i conti con la politica di papa Francesco. Comincia infatti a delinearsi il “segno” di questo pontificato.
Un magistero fatto di conversione e testimonianza piuttosto che di note dottrinali. Non che la dottrina non sia importante, ma non è necessario rideclinarla ad ogni stagione, tanto è la stessa da duemila anni.
È necessario invece viverla, renderla visibile, praticata, dimostrarne la praticabilità e, dunque, l’attualità. Il suo è un magistero di gesti, di scelte, di atti e di fatti. E il mondo dei credenti viene interpellato e indotto alla sequela. E quello dei non credenti osserva sorpreso e sempre più intrigato: se il cristianesimo è questo allora è una cosa seria.
In Italia in particolare, anche per ragioni storiche comprensibili, soprattutto negli ultimi decenni ci si è affidati troppo alla difesa della politica, fingendo di non sapere che la politica può sempre meno e che in ogni caso è popolata da donne e uomini fragili come tutti e le istituzioni sono necessariamente attente a ciò che c’è fuori piuttosto che a determinare ciò che c’è fuori. È a monte, cioè fuori, nella società, che il cristianesimo deve giocare le sue carte se vuole servire l’uomo. Di seguito verrà il resto, anche la politica. I gesti, i tanti quotidiani piccoli gesti, di papa Francesco stanno producendo attenzione, interesse, confessioni, conversioni. Cambiamento.
È bastata l’insistenza sul tema della misericordia, cioè sulla bontà e paternità di un Dio che vuole bene all’uomo, a tutti gli uomini, anche i peccatori anche i non credenti, per determinare un “ascolto” nuovo, per determinare un ritorno al sacramento della “richiesta del perdono” per i propri errori con la fiducia di ottenerlo, per riempire piazza san Pietro di domenica, di mercoledì, ogni giorno in cui è possibile incontrare questo imprevedibile Pastore. Non basterà certo il magnetismo del nuovo pontefice a cambiare le cose, ma può servire a creare lentamente un magistero dei comportamenti più allargato e partecipato che a sua volta può aiutare tutti a scoprire il sapore dimenticato della buona novella.
Che c’entra tutto ciò con la politica? C’entra perché può aiutare i politici cattolici a ritrovare il senso della loro missione che è quella di stare nelle istituzioni non per convertire il mondo ma per farle funzionare meglio a servizio del “bene comune”, cioè del bene di tutti. Di starci con intelligenza della storia, dedizione disinteressata, competenza coltivata. È una reductio? Tutt’altro. È esaltazione di un ruolo che, poiché non è richiesto a tutti nella comunità cristiana, chi lo esercita deve dimostrare di esserne all’altezza.
Vale la pena riflettere su uno studio apparso sulla rivista francese Futuribles (mars-avril 2013, n. 393) in cui si dimostra che la qualità antropologica e i costumi nei vari paesi dell’Europa sono prevalentemente determinati non dalla qualificazione politica dei loro governi quanto dall’influenza della religione prevalente nel paese. L’autore, Pierre Bréchon, professore a l’Institut d’études politiques de Grenoble, dopo aver suddiviso i vari paesi per religione prevalente (ad esempio, paesi cattolici: Malta, Polonia, Irlanda, Austria, Italia, Portogallo, ecc.; paesi protestanti: Danimarca, Finlandia, Svezia, Gran Bretagna, ecc.; paesi multiconfessionali: Lettonia, Germania, Paesi Bassi, ecc.; paesi ortodossi: Grecia, Cipro, Romania, Russia, Ukraina, ecc.; paesi musulmani: Turchia, Kossovo, Cipro Nord, Albania, ecc.) esamina l’atteggiamento delle rispettive popolazioni di fronte ad alcuni temi/valori e ne esce confermata la tesi che ho già anticipata e, in particolare, la tendenza a ridursi della forbice comportamentale tra i paesi cattolici e quelli protestanti. Per esigenze di spazio posso citare solo alcuni dei numerosi indicatori presi in esame.
Primo: “molto favorevoli alla famiglia tradizionale” (dati percentuali): paesi cattolici 29, protestanti 10, multiconfessionali 26, ortodossi 51, musulmani 72.
Secondo: “forte liberalizzazione dei costumi”: cattolici 58, protestanti 71, multiconfessionali 67, ortodossi 38, musulmani 10.
Terzo: “molto favorevoli alla permissività civica”: cattolici 56, protestanti 45, multiconfessionali 53, ortodossi 58, musulmani 18.
Quarto: “liberali in economia”: cattolici 58, protestanti 77, multiconfessionali 73, ortodossi 51, musulmani 50.
Questi soli quattro indicatori (la ricerca ne ha esaminato più di una ventina) ci dicono tante cose. Sicuramente che c’è in atto un processo di avvicinamento nei comportamenti dei popoli europei e che le differenze che pur rimangono segnalano una perdita di influenza dei messaggi delle diverse religioni prevalenti, almeno di alcune. E, dunque, le diverse conseguenti antropologie risentono ben più della crescente difficoltà delle chiese a parlare all’uomo contemporaneo piuttosto che dell’azione dei governi. Ciò per confermare la necessità di ritrovare all’interno delle comunità religiose prima ancora che in quelle civiche il senso della propria missione abbandonando l’idea pagana di una sorta di onnipotenza della politica.
In questo senso mi pare, per tornare alle affermazioni iniziali, che la politica di papa Francesco sia molto interessante anche sotto il profilo oggettivamente politico. Cercare di “aggiustare” la società diventa il vero compito prioritario e inevitabilmente, alla lunga, il più influente per la politica stessa. Più del nostro pur importante e necessario lavoro nelle istituzioni.

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