martedì 18 giugno 2013

Le primarie aperte non sono più in discussione

    

Il vecchio partito di massa non risponde più alla realtà di oggi
Prove di dialogo, ieri, al seminario di Italianieuropei. In parallelo alla riunione della commissione per il regolamento (da non confondere con il primo, com’è capitato). Siamo ai preliminari, su temi che scaldano solo pochi appassionati. Il clima non è falsamente unanime, come nel 2007. E nemmeno gladiatorio, come nel 2009. Molte diversità di opinione sono rimaste quasi intatte.
Con l’endorsement ormai esplicito a Gianni Cuperlo, D’Alema ha di fatto inaugurato la sua campagna congressuale. Si è detto convinto che segretario e candidato premier non devono «necessariamente» coincidere. Ma la logica dello statuto, la scelta del segretario da parte di tutti gli elettori, non mi pare sia più in discussione.
Rimane il sottofondo comune a molti degli interventi iniziali: la nostalgia per tratti tipici dei partiti di massa novecenteschi, o forse della loro idealizzazione postuma. Partiti espressione di una «comunità» o di una classe di cittadini ben identificabile, di individui non isolati, identificati con la missione collettiva, capaci di offrire ai militanti un percorso di partecipazione ricco, di socializzarli ad una visione condivisa, anche di educarli, in certi casi, di dare forza rappresentativa ai deboli e di fronteggiare le pressioni degli interessi forti, di essere intermediari non solo in termini elettorali, ma giorno per giorno, tra la società e le istituzioni, di selezionare, sostenere e coordinare classe dirigente. Partiti capaci di promuovere a ruoli di classe dirigente persone che mai avrebbero potuto aspirarvi se avessero dovuto far contro solo sulle proprie risorse private.
La nostalgia è comprensibile, non solo per ragioni soggettive e biografiche. Il partito di massa è stata una tra le più importanti innovazioni politiche del secolo scorso. Una invenzione che “da sinistra” ha contagiato il campo avversario. Una forma che corrispondeva alla sostanza di partiti nati da profonde fratture sociali, dentro conflitti che creavano comunità parallele, sub-culture, e ne facevano veicolo di movimenti collettivi imponenti.
La rievocazione di quei tratti, magari ammodernati grazie all’uso di categorie pseudo-politologiche, continuano a suscitare, per le stesse comprensibili ragioni, sentimenti positivi tra molti militanti, non solo quelli di lunga data. Rischiano così d’essere usati come mezzo di propaganda congressuale. È capitato appunto nel 2009, quando il mantra del “partito strutturato e radicato nel territorio”, rappresentò il più forte tra i richiami della coalizione mobilitata a sostegno di Pier Luigi Bersani. Una promessa mai mantenuta, forse perché non mantenibile. Di Bersani si ricorderanno semmai impegnative campagne di comunicazione centrate sulla faccia e il personale lessico del leader.
Nel frattempo, infatti, troppe cose sono cambiate perché quella visione dei partiti politici possa tradursi in pratica. I partiti si sono assottigliati non certo «a causa delle primarie», che semmai li hanno rigonfiati di una nuova linfa, restituendo inaspettatamente vita a organismi semi-agonizzanti. Si sono “volatilizzate” (non solo in termini elettorali) le classi sociali di riferimento che creavano identificazioni immediatamente spendibili in campo politico. Si è enormemente assottigliata la platea degli iscritti attivi. Proprio grazie alla «mobilitazione cognitiva», almeno nel senso che questo termine ha nella scienza politica contemporanea, dagli studi di Russel Dalton in poi, diverso dall’accezione sui generis con cui lo usa Fabrizio Barca. Individui più istruiti, ricchi, esposti ad una molteplicità di media e messaggi, sono diventati più disposti a prendere posizione su temi pubblici, ma sempre meno ad identificarsi con un singolo partito e a vederlo come canale prevalente o univoco per partecipare.
Le primarie hanno dato per l’appunto una risposta alla «mobilitazione cognitiva», e anche ad un altro problema, che nel seminario mi è parso sottovalutato. I partiti di sinistra correvano e corrono il rischio, con l’assottigliarsi della militanza tradizionale, di ridursi a «società di professionisti», aggregati di «classe dirigente» o aspirante tale. Di oligarchie che amministrano il consenso dello zoccolo duro per auto tutelarsi. Le primarie non sono la panacea per tutti i mali della cattiva politica, ma possono introdurre un nuovo equilibrio, potenzialmente più dinamico, tra la base associativa, le correnti e il leader.

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