TITO BOERI
La Repubblica - 17/9/14
Ieri alla Camera Renzi ha detto che il
suo governo intende varare la riforma del lavoro prima della fine
dell’anno se necessario ricorrendo ad un decreto. Bene in effetti
decidere in fretta prima che ci tolgano quel poco di sovranità
limitata che ci è restata. Fondamentale dare segnali forti, che
possano essere percepiti dai giovani che stanno decidendo se e dove
emigrare e da chi guarda al nostro Paese da molto lontano e ha soldi
da investire.
QUESTA settimana dovrebbe concludersi
l’esame in Commissione al Senato della legge delega sulla riforma
del lavoro. Una legge delega dovrebbe fissare principi generali e
affidare al governo il compito di tradurli in norme specifiche.
Invece l’impressione è che sin qui si sia discusso di tanti
dettagli (mansioni, controlli a distanza, scambi di ferie, etc.)
perdendo la visione d’insieme e con questa il senso delle sfide che
stanno di fronte alle politiche del lavoro in Italia.
Il problema centrale è quello della
bassa produttività. Come ricordava ieri Federico Fubini su queste
colonne, il divario nel prodotto per addetto fra il nostro Paese e la
Germania continua ad aumentare. Non va molto meglio se ci compariamo
al Regno Unito e alla stessa Spagna. Questi andamenti sono tutt’altro
che accidentali, per certi aspetti sono ricercati. Da ormai vent’anni
abbiamo deciso di puntare tutto sui lavori e i lavoratori temporanei,
a bassa produttività e bassi salari. Nelle parole di Maurizio
Sacconi, che più a lungo di tutti ha gestito le politiche del lavoro
in Italia, il futuro è nei “lavori umili” e i giovani devono
“rivalutare il lavoro manuale”. E’ stato accontentato: nella
disoccupazione giovanile al 43 per cento spicca il fatto che i
laureati tra i 25 e i 29 anni faticano più dei diplomati a trovare
lavoro. Non ci sono posti per loro. Eppure accettano di tutto, non
sono “choosy”, schizzinosi, come lamentava Elsa Fornero: un terzo
dei giovani che lavorano, lo fanno per meno di 5 euro all’ora, in
più del 50 per cento dei casi si tratta di lavori non solo
temporanei, ma anche con orari più corti di quelli che si vorrebbe
(l’80% dei giovani che lavorano part-time vorrebbe un impiego a
tempo pieno). I lavoratori potenzialmente più produttivi, sono in
genere coloro che hanno livelli di istruzione più elevati, se ne
vanno all’estero dove i tassi di disoccupazione giovanile arrivano
a malapena alle due cifre. Se ne vanno perché la segregazione cui ha
accennato ieri Renzi alla Camera diventa sempre più forte, purtroppo
grazie anche alle politiche varate sin qui dal suo governo. Da quando
è entrato in vigore il decreto Poletti, è infatti ulteriormente
aumentata la quota di assunzioni e licenziamenti su contratti
temporanei (è diminuita quella su contratti a tempo indeterminato),
mentre sono diminuite le trasformazioni dei contratti a tempo
determinato in contratti a tempo indeterminato. Il turnover avviene
ormai tutto in questo segmento nettamente separato dal resto del
mercato del lavoro. Non dà un futuro, non dà speranze.
Se la riforma del lavoro vuole davvero
lasciare il segno, dovrebbe investire nella creazione di posti di
lavoro che non siano nati con una data di scadenza e che offrano vere
opportunità di miglioramento di salari e produttività nel corso
della carriera. Sono posti in cui conta la qualità dell’incontro
fra domanda e offerta e l’investimento in formazione sul posto di
lavoro. Il contratto a tutele crescenti permette di sperimentare se
un rapporto di lavoro a tempo indeterminato funziona o no dando modo
al datore di lavoro, nel caso in cui la risposta fosse negativa, di
interromperlo almeno in una fase iniziale con costi certi e
relativamente contenuti. Imporre a chi dà lavoro di pagare per il
licenziamento di un neoassunto quanto paga per il licenziamento di un
lavoratore con vent’anni o più di anzianità aziendale è una
negazione della sperimentazione. Impedisce di creare posti a tempo
indeterminato su mansioni in cui la qualità dell’offerente non può
essere valutata con un semplice colloquio di lavoro, ma richiede mesi
di compresenze in azienda. Offrire un compenso monetario al
lavoratore in caso di licenziamento, che sia crescente con la durata
dell’impiego, incentiva il lavoratore a investire nella durata del
rapporto di lavoro, dunque nella formazione. Permettere i
licenziamenti individuali e non solo quelli collettivi, lasciando al
datore di lavoro facoltà di scegliere chi licenziare e chi no,
stimola fortemente gli investimenti in produttività, di entrambe le
parti, lavoratori e imprese.
Il problema della produttività è
particolarmente acuto da noi perché il regime di contrattazione non
permette di legare salari e produttività. Per le imprese che devono
creare lavoro quel che conta è il rapporto fra quanto il lavoro
produce e quanto costa, fra produttività del lavoro e salari.
Stranamente in Commissione a Palazzo Madama si è parlato di tutto
tranne che di salari, come se non avessero nulla a che vedere con il
mercato del lavoro. Può ovviare a questa grave dimenticanza un
accordo tra le parti che sancisca che, come in Spagna e in Germania,
nelle aziende dove si svolge la contrattazione aziendale, le
decisioni prese in questi accordi devono poter prevalere su quanto
stabilito dai contratti nazionali, fatte salve ovviamente le leggi
dello Stato. Sarebbe un modo per stimolare la contrattazione
decentrata, azienda per azienda, prendendo atto del fatto che gli
incentivi fiscali introdotti in questi anni, con la detassazione dei
premi di produttività, non sono serviti a nulla: da quando ci sono,
è diminuita la quota di aziende in cui si fa la cosiddetta
contrattazione di secondo livello. Potremmo cancellare gli incentivi
fiscali, risparmiando quasi un miliardo, da destinare ad allargare la
platea dei beneficiari del bonus di 80 euro.
Per investire nei nuovi lavori bisogna
affinare il passaggio dalla scuola al lavoro. Qui possiamo
trasformare un fallimento in una grande opportunità, una cocente
delusione in una riforma pilota anche per l’Europa. Il fallimento è
quello, peraltro annunciato, della cosiddetta Garanzia giovani. A
fronte dei quasi 200.000 giovani che si sono iscritti, i centri
dell’impiego hanno identificato 103 opportunità d’impiego. Nove
giovani su dieci iscritti su www.garanziagiovani.gov.it non hanno
neanche ricevuto il primo colloquio di orientamento. E’ l’ennesima
delusione, dopo il rapimento dei 200.000 posti di lavoro promessi dal
pacchetto sul lavoro del Governo Letta. Chi li ha visti? Mentre
chiediamo maggiori investimenti all’Europa non possiamo permetterci
di far affondare l’unico investimento che ha fatto in questi anni
nel nostro mercato del lavoro. Perché allora non permettere ai
giovani di spendere la dote loro concessa dall’Europa in corsi
avanzati di formazione-lavoro organizzati da università sul
territorio in contatto con le aziende? Perché lasciare che questi
soldi vengano buttati via presso qualche centro dell’impiego o
finiscano per arricchire unicamente gli intermediari privati, anziché
favorire i giovani? L’apparato normativo c’è già. Le università
possono già oggi istituire corsi brevi di formazione a contatto con
le aziende, in cui i frequentanti passano metà del tempo nelle aule
universitarie e l’altra metà in azienda. La partecipazione e il
lavoro dei giovani potrebbe essere in gran parte remunerata con la
dote. Questi corsi non offrono garanzie di trovare lavoro, ma
trasferiscono capitale umano, competenze che sono davvero utili alle
aziende, che ci mettono del proprio nel formare il potenziale
dipendente e che hanno tutto l’interesse ad assicurarsi che
l’università faccia bene il suo mestiere.
Una riforma del lavoro che riesca a
incidere su questi tre aspetti, regimi contrattuali, contrattazione
salariale e formazione tecnica avanzata, darebbe un segnale forte ai
giovani, all’Europa e a chi guarda anche da lontano al nostro
Paese. Saremmo i primi a introdurre un contratto di lavoro che serve
a unificare il mercato del lavoro, riducendo la segregazione dei
lavoratori temporanei. Saremmo i primi a utilizzare i miliardi della
garanzia giovani per introdurre un sistema di formazione duale come
in Germania, Austria e Svizzera, i Paesi dove la disoccupazione
giovanile è più bassa. E non spingeremmo più chi ha soldi da
spendere e vuole creare posti da lavoro ad andare altrove perché
ritiene che da noi comunque non conterebbe nulla. Bisogna offrire a
questi investitori la possibilità di negoziare su tutto, orari,
organizzazione del lavoro e salari. Lo farà con le organizzazioni
dei lavoratori nell’azienda in cui vuole investire senza vederselo
imposto dall’alto.
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