Corriere della Sera 07/09/14
Il cuore cattolico della Leonessa
d’Italia si accendeva quando si parlava della «questione romana».
Non solo si appassionava, ma si divideva sulle posizioni da tenere
nei confronti dello Stato unitario. Fermo restando l’allineamento
al divieto di partecipare alla vita politica, alcuni, pensando ad un
passato da riparare o da ricuperare, restavano ligi alla formula di
protesta: «Né elettori, né eletti», mentre altri, guardando ad un
futuro diverso, a un «dopo», proponevano la formula: «Preparazione
nell’astensione». Giovanni Battista Montini aveva respirato in
casa il vento che spingeva verso il futuro, che implicava una seria
preparazione al «dopo», sentito come inevitabile dalla corrente che
si rifaceva a Pietro Capretti e Geremia Bonomelli. Una volta giunto a
Roma, da Assistente della Fuci, il giovane prete bresciano imboccò
immediatamente il cammino della preparazione al «dopo», questa
volta al «dopo» la fine del regime fascista, rivolgendosi a quei
giovani i quali, per non essersi piegati, erano obbligati ad
astenersi dalla politica. Alcuni dei più qualificati estensori della
Costituzione Italiana e degli uomini di governo della Ricostruzione
sono figli di questo programma di preparazione, fatto di formazione
umana, civile e religiosa che don Giovanni Battista Montini
considerava fondamentale, accanto alla preparazione professionale.
Della politica aveva una concezione altissima, giungendo a definirla
una delle forme più alte della carità, di quella carità che induce
e mettere le migliori energie al servizio del bene comune,
privilegiando i più poveri. Il suo obiettivo era di formare
coscienze cristiane capaci di forte testimonianza anche nella
politica. Nella convinzione che per migliorare le politica occorreva
innanzitutto migliorare l’uomo politico. E così, accanto alla
figura di prete dedito all’ azione politica e sociale, come don
Murri e don Sturzo, o quelle di preti organizzatori di cooperative o
di promozione dei giovani delle classi più umili, Montini interpreta
il ruolo del prete educatore alla fede nel campo politico, il
formatore di persone che vanno in politica per mettere a servizio
della comunità le proprie ricchezze interiori e le proprie
competenze, e non per arricchirsi personalmente. Discorrendo con Jean
Guitton, Paolo VI svelerà le radici familiari del suo peculiare
sentire politico: «A mio padre devo gli esempi di coraggio,
l’urgenza di non arrendersi al male, il giuramento di non preferire
mai la vita alle ragioni della vita. Mio padre non aveva paura.
L’amore di Dio si traduceva in mio padre nell’azione politica e
in mia madre nel silenzio. Una stessa determinazione totale che in
mio padre si esprimeva più come forza e in mia madre più come
dolcezza. Ma la dolcezza riposa sulla forza». Se la cultura
familiare gli aveva dato le motivazioni prime che faranno di lui un
formatore di coscienze politiche, il contatto con la «via francese»,
specialmente con il contestatissimo Maritain e il suo Umanesimo
integrale, lo arricchiranno di una modalità originale di incontro
tra cristianesimo e democrazia, favorendo anche un diverso
protagonismo dei laici. Eletto al Soglio pontificio, non dimenticò
il contenuto essenziale del programma «preparazione
nell’astensione», dandole una nuova interpretazione e un nuovo
contenuto. È lecito pensare che avrebbe preferito vedere le Chiese
dell’America Latina dedicare più forze e più impegno alla
preparazione al «dopo» l’inevitabile caduta delle dittature
militari. Obbligati ad astenersi dall’impegno politico, ricordava
loro che era necessario preparare una classe dirigente onesta e
competente, socialmente sensibile, se si voleva evitare di cadere
nelle braccia dei due Moloch del capitalismo selvaggio o del
socialismo reale. Invece che logorarsi solo in una politica di
denuncia, ricordava la necessità anche di una politica di proposta.
Non fu certamente capito né aiutato dal clima propenso all’utopia,
predominante anche in non poche Università dell’Occidente. Nel
tempo degli slogan «Tutto è politica» e «La fantasia al potere»,
ricordò che la politica non è tutto e che non basta lo spontaneismo
della fantasia per un serio cambiamento. Nel maggio del 1971,
pubblicando la lettera apostolica Octogesima adveniens , si astenne
dal proporre un progetto di società cattolica, o di offrire
soluzioni concrete ai nuovi problemi, concentrandosi piuttosto
sull’importanza di utilizzare nuovi strumenti e nuovi
atteggiamenti, che esigevano una preparazione per un efficace
discernimento. Paolo VI può essere considerato un grande Papa
politico, per il triplice motivo d’aver coltivato e proposto un
alto profilo della politica, d’essere stato educatore alle più
nobili ed esigenti motivazioni della politica, d’essere riuscito a
fare della Chiesa un importante e originale protagonista con influsso
sulla politica mondiale, in quanto «esperta in umanità». Riscosse
infatti grandi consensi quando all’Onu, parlò della Chiesa come
«esperta in umanità». Lavorò senza risparmiarsi per fare della
sua polis , la Chiesa, una città umana che riflettesse il più
possibile le fattezze della città di Dio, investendovi in prima
persona tutto quello che era e tutto quello che aveva ricevuto,
soprattutto il suo amore. Per sé non chiese nulla. Gli bastava
d’essere stato un costruttore forte e dolce di una polis che fosse
sentita e amata come il luogo dove uomini e donne del mondo moderno
si trovassero a casa loro. Questo è solo un a spetto della sua
poliedrica presenza sullo scacchiere mondiale. Ma non è sufficiente
per fare di lui un grande della Politica?
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