Corriere della Sera del 22/09/14
Maria Teresa Meli
«Ma credete veramente alla storia di
più di cento parlamentari che faranno battaglia contro di me sul
Jobs act?»: prima di volare per gli Stati Uniti Matteo Renzi si
lascia andare a un sorriso con chi esprime un certo timore perché la
minoranza è sul piede di guerra. E al Tg2 affida parole più che
esplicite: «Dentro il mio partito c’è chi pensa che si possano
utilizzare i risultati delle elezioni europee per fare finta che non
sia cambiato niente. Si mette lì Renzi come foglia di fico e
continuiamo a governare, è questo quello che pensano. Ma sono
cascati male».
Già, il presidente del Consiglio non ha voglia
di «farsi condizionare dai ricatti» della minoranza. Si può
trattare su punti ragionevoli, ma niente di più: l’impianto della
legge resta quello e bisogna anche fare in fretta. «Non hanno capito
con chi hanno a che fare», mormora Renzi prima di salire sull’aereo.
Del resto, ribadisce, «tutti quei voti li ho presi io, e li ho presi
per cambiare, non per lasciare le cose come stanno, sennò era del
tutto inutile che andassi io al governo».
Il solco, quindi, è
tracciato. E l’agitazione della minoranza non sembra fare troppa
paura al premier come dimostrano quelle parole profferite
pubblicamente in un’intervista al Tg2. Altrimenti, avrebbe scelto
altri canali per far filtrare il suo disappunto. Invece, la lettera
aperta agli iscritti prima, e quella apparizione in tv poi, stanno a
testimoniare del modo in cui il presidente del Consiglio intende
affrontare la Direzione del 29 settembre prossimo dove, sia detto per
inciso, ha la maggioranza.
Lo schema che il premier intende
seguire è lo stesso adottato con la legge elettorale e con il ddl
costituzionale sul Senato e il Titolo V della Carta fondamentale:
prima un voto in una riunione di Direzione, poi un voto nei gruppi
parlamentari. Dopodiché «la democrazia interna di un partito ha
delle regole e non può esistere la libertà di coscienza su tutto».
Il che non significa certo che il premier-segretario minaccia
espulsioni, ma che si richiama alla serietà di chi è iscritto al Pd
e lo rappresenta nelle istituzioni. Del resto, chi adesso lo
osteggia, lo accusa e lo crocifigge nelle interviste sui giornali, è
chi ha portato il Pd ai suoi minimi storici: «È un fatto —
commenta con i suoi il presidente del Consiglio — che prima il
Partito democratico perdeva e che adesso vince».
La
tranquillità con cui Renzi sembra affrontare i travagli interni al
Pd sembra data anche da un altro elemento: il premier è convinto che
in realtà la minoranza non sia compatta in questa sua guerra contro
di lui. Ritiene che alla fine l’avranno vinta il capogruppo alla
Camera Roberto Speranza e il ministro dell’Agricoltura Maurizio
Martina che rappresentano l’anima dialogante della minoranza. Sono
loro i personaggi di maggior calibro in quell’area ed è con loro
che si può trattare. I renziani sono convinti che questa fetta del
partito non voterà contro in Direzione. Il giro di Pier Luigi
Bersani, Cesare Damiano, Stefano Fassina e Pippo Civati può
raccogliere gli scontenti. Ma quanti saranno? Al massimo
rappresenteranno tra il 15 e il 20 per cento del partito. A dire
proprio tanto. Non di più. Perché — è il ragionamento che viene
fatto a Palazzo Chigi — a differenza del passato la minoranza dei
Fassina, dei Bersani e dei Damiano è in difficoltà dal momento che
la Cgil non ha più la forza di una volta e, facendo fronte con quel
sindacato, rischia di rinchiudersi in una battaglia residuale. A
parte il fatto che la stessa Cgil sta inviando dei segnali
all’indirizzo del premier e del Nazareno nella speranza di un
incontro e di un chiarimento.
C’è una frase sfuggita qualche
giorno fa a Rosy Bindi che viene ritenuta assai significativa dai
renziani: «Matteo troverà dei giapponesi pronti a combattere». Dei
giapponesi, appunto, come quelli che non si volevano arrendere quando
la guerra era già persa.
Dunque non è la rivolta della
minoranza che impensierisce il premier, ma l’idea che si fa strada
in certi ambienti di picconare il suo governo per aprire la strada a
una sorta di Monti bis. «La minaccia delle elezioni non riguarda la
minoranza del Pd e non è nemmeno un mio auspicio, è rivolta a chi
pensa a ipotesi tecnocratiche», ha confidato il premier ai
fedelissimi prima della partenza per gli Usa.
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