Nei partiti e nei sindacati, nella maggioranza e fuori, c'è chi
applica etichette ideologiche al tema più drammatico e urgente per gli
italiani. Non da oggi ma da molti mesi Renzi ha dichiarato le proprie
intenzioni e ha ricevuto la spinta per realizzarle.
È molto facile in queste ore capire chi è interessato a
fare della questione del lavoro solo una bandiera ideologica. Erano
attesi, puntualmente si sono palesati. Sono coloro che, per l’ennesima
volta, cercano di ridurre l’intero dibattito pubblico a una danza
tribale intorno al totem dell’articolo 18.
Ce ne sono a destra e a sinistra. Dentro e fuori il perimetro della
maggioranza di governo, quindi fra gli oppositori ma anche fra i
sostenitori di Renzi. Nei partiti e nei sindacati. Li riconoscerete
facilmente perché sono quelli che più frequentemente appiccicano alle
proprie dichiarazioni riferimenti solenni alle proprie identità:
«Finalmente si realizza un obiettivo storico del centrodestra». «Una
vera sinistra non può togliere diritti ai lavoratori». C’è sempre da
sospettare, quando la politica e i politici sovrappongono se stessi alle
persone in carne e ossa che sono oggetto e soggetto delle riforme.
In questo caso, parliamo di milioni di lavoratori e soprattutto di
non-lavoratori. Che hanno già ampiamente dimostrato, quando sono andati a
votare o più spesso quando non sono andati a votare, quanto il loro
giudizio sia distante da chi pretende di interpretarlo.
Questo è uno dei significati profondi di quel 40,8 per cento al Pd di Renzi. Perché Renzi ha già enunciato molto tempo fa le intenzioni che oggi trasforma in legge delega, in emendamento, forse prima o poi (speriamo di no) in decreto. Casomai da quando è arrivato a palazzo Chigi s’è avvicinato alla riforma del mercato del lavoro con prudenza, rimanendo sulle generali. Ma le premesse erano chiare. E gli elettori le conoscevano, sia quelli delle primarie del Pd che quelli delle europee di maggio.
Questo è uno dei significati profondi di quel 40,8 per cento al Pd di Renzi. Perché Renzi ha già enunciato molto tempo fa le intenzioni che oggi trasforma in legge delega, in emendamento, forse prima o poi (speriamo di no) in decreto. Casomai da quando è arrivato a palazzo Chigi s’è avvicinato alla riforma del mercato del lavoro con prudenza, rimanendo sulle generali. Ma le premesse erano chiare. E gli elettori le conoscevano, sia quelli delle primarie del Pd che quelli delle europee di maggio.
Questo non significa che gli abbiano consegnato una delega in bianco.
Come già sulla riforma del bicameralismo e sul sistema elettorale, i
testi con i quali il governo entra in parlamento sono ampiamente
migliorabili. E questo compito andrà svolto, rimanendo però strettamente
aderenti a ciò che funziona di più (per creare nuovo lavoro), a ciò che
è più giusto (per chi ha diritti ora e per chi non ne ha), a ciò che è
più necessario (a chi affronta, o rischia di affrontare, periodi di
disoccupazione).
Il contesto politico e il mandato ricevuto dagli italiani però non
potrebbe essere più chiaro. Casomai Renzi dovrà guardarsi dal tradirlo. I
sondaggi non segnalano alcuna rivolta in difesa di feticci e scatole
vuote: segnalano una volontà feroce di novità e di protezioni
autentiche.
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