Non c'è bisogno di essere berlusconiani per vedere la necessità di
tornare a distinguere tra sospetti e condanne, tra reati e reati, mentre
c'è chi gioca sulla confusione. Anche in Emilia Romagna
Sicuramente si può provare a discutere con Marco Travaglio, anche se lui considera Europa
«un giornale clandestino». Su questa definizione (non so su altro) la
pensa come Massimo D’Alema, ma sappiamo per certo che entrambi sono fra i
nostri lettori fedeli. Così come si può discutere con tanti che sulla
rete hanno commentato sbrigativamente la nostra posizione
sull’inchiesta emiliana “spese pazze” assimilandola agli attacchi
lanciati per anni contro la magistratura da Berlusconi e dai suoi
giornali.
Ci sarebbero tanti piani possibili del discorso, a partire dalla
considerazione che il ceto politico ha fatto in generale di tutto per
meritarsi discredito presso i cittadini e – in molti casi – la
sacrosanta azione di controllo e penalizzazione da parte della
giustizia.
Altra considerazione “generale”: tutti dovrebbero condividere la
speranza che la politica sia in grado di tornare credibile e di
muoversi, governare, amministrare secondo mandato democratico senza
sentirsi minacciata o condizionata da poteri di qualsiasi tipo, compreso
il potere giudiziario.
Parlando di Bologna, osservazioni critiche si possono fare sui tempi
dell’inchiesta, ma nulla a che vedere con i casi di abuso di potere
togato, che pure ci sono stati e non pochi. Qui non ci sono pm in cerca
di gloria, notorietà e carriera magari politica, come tanti loro
colleghi – alcuni assai amici di Travaglio – che hanno fatto un pessimo
servizio alla rivendicata indipendenza del ruolo.
Il punto cruciale è questo: diradato il furore della caccia alle
streghe, quando sarà possibile in Italia tornare a distinguere secondo
logica, ragione e, appunto, giustizia? Cioè a riconoscere non solo
l’ovvio (e cioè che ci sono molti gradi di avanzamento di un’inchiesta e
non è possibile stroncare l’immagine e il lavoro di nessuno fermandosi
al primo sospetto) ma anche ciò che pare ormai indicibile: e cioè che
neanche tutte le violazioni del codice sono eguali fra loro e devono
avere le stesse conseguenze (come infatti non hanno neanche a termini di
legge)?
Insomma, assimilare corruzione e furto alle decine di infrazioni
nelle quali può incappare un amministratore nella giungla di norme e di
codici che lo circonda va solo a vantaggio dei veri ladri e dei veri
corrotti, e sono già abbastanza a destra, a sinistra e al centro mentre
di buoni politici e di buoni amministratori non è che ci sia scialo.
A chi fa comodo, se all’interno della stessa inchiesta bolognese
fanno il medesimo scandalo i duecento euro spesi ogni mese da Stefano
Bonaccini per mangiare e viaggiare, e i 480 euro spesi dal suo collega
del Pdl per comprare un gioiello o dal capogruppo del Pd per una singola
cena alla Rosetta?
L’esempio non è scelto a caso, perché l’impaginazione di ieri del Fatto era costruita appunto per confondere i casi più indifendibili con le figure di Bonaccini e Richetti.
Chiaro che siamo a un’operazione politica, che con la giustizia non
c’entra più nulla. E che rischia di costruire altri casi Boni. Già,
perché c’è stato chi ha assimilato le nostre tesi sull’Emilia Romagna a
quelle di Formigoni quando nella tormenta finì la sua Lombardia. E
allora, anche per cancellare il sospetto di doppiopesismo, vale la pena
citare un solo caso fra molti possibili: quello di Davide Boni,
presidente leghista del consiglio lombardo, trascinato per due anni in
un’accusa di corruzione che gli è costata dignità e carriera politica
prima che i magistrati riconoscessero che contro di lui non c’era nulla:
archivizione prima del rinvio a giudizio.
Siccome di questo esito nell’archivio del Fatto non c’è
traccia, a Travaglio toccherà sopportare che qualcun altro, sia pure
dalla clandestinità come Europa, faccia distinguo e avanzi dei dubbi in
funzione preventiva. Con il suo permesso, ma anche no, e senza paura di
confusione col berlusconismo perché per fortuna da queste parti il
garantismo lo coltiviamo da quando era una bella e forte parola di
sinistra.
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