Corriere della Sera 14/09/14
È utile che il capo del governo sia
anche e contemporaneamente leader del proprio partito? O è meglio
che i due incarichi siano separati? Di questo, e per la verità non
solo di questo, si sta discutendo all’interno del Partito
democratico, con esponenti di primissimo piano come Pier Luigi
Bersani e Massimo d’Alema che apertamente chiedono al presidente
del Consiglio Matteo Renzi di concentrarsi unicamente sul proprio
ruolo di governo lasciando ad altri la guida del partito.
La
questione ha un rilievo che va ben al di là della disputa tra
maggioranza e minoranza del Pd, tanto che può essere utile
proiettarla sul più vasto orizzonte europeo per vedere quali siano
gli assetti prevalenti nelle democrazie nostre vicine.
Ebbene,
la prassi è che il leader del partito che, solo o in coalizione con
altre forze, vince le elezioni diventi capo del governo conservando
la guida del partito.
È stato ed è così per Angela Merkel,
per David Cameron, per Mariano Rajoy e per quasi tutti i capi di
governo europei. Non per François Hollande, ma questo si spiega col
fatto che egli ha conquistato la carica non di primo ministro ma di
capo dello Stato e a quel punto, come presidente di tutti i francesi,
è stato tenuto ad abbandonare la guida del suo partito.
Che il
leader del partito che abbia vinto le elezioni diventi capo
dell’esecutivo senza cedere la sua posizione di comando alla testa
della propria forza politica non deve stupire. Nelle democrazie
compiute, verrebbe da dire nei Paesi normali, i partiti, persino
quelli più piccoli, sono per loro natura «partiti di governo», nel
senso che hanno come obiettivo la conquista del potere quale
strumento per la realizzazione dei propri programmi.
In questa
prospettiva, essi scelgono i propri leader non per la semplice
attitudine ad essere il primo degli iscritti ma in funzione della
capacità di condurli alla vittoria e, quindi, di guidare il Paese.
Con il «duplice cappello» di capo dell’esecutivo e del partito,
il leader vittorioso è simbolo e garanzia del successo e della
promozione della linea politica del partito che, con i propri voti e
i propri eletti, diventa naturalmente il «partito del premier»,
assicurandogli la forza e il tempo necessari per realizzare, spesso
nell’arco di più di una legislatura, il programma presentato agli
elettori e da loro premiato.
L’eccezione a questa prassi si
ebbe nella Germania del 1998 quando i socialisti della Spd si
presentarono alle elezioni con Oskar Lafontaine, esponente di punta
della propria ala sinistra, presidente del partito e Gerhard
Schroeder, portatore di una politica più moderata, candidato
cancelliere. Dopo la vittoria, che pose fine al lungo regno di Helmut
Kohl, il contrasto tra i due non tardò ad esplodere con il
conseguente abbandono di tutte le cariche di governo (dove era
ministro delle Finanze) e di partito da parte di Lafontaine che,
pochi anni dopo, sarebbe uscito dalla Spd per fondare una forza
dichiaratamente di sinistra.
Rivolte di partito determinate non
da una sconfitta elettorale ma da un normale esaurimento della
leadership , determinarono, peraltro, nella Gran Bretagna culla della
democrazia, la fine della carriera politica di due premier
potentissimi come Margaret Thatcher, prima, e Tony Blair, poi. A
dimostrazione che, per quanto il sostegno al premier e alla sua
politica diventi elemento essenziale della vita del partito
vittorioso e, in particolare, della sua rappresentanza parlamentare,
questo, nella concreta esperienza delle democrazie europee, non
comporti necessariamente e all’infinito lo spegnimento del
dibattito interno.
Rifiutare l’accoppiata premier-segretario è
spia di una scelta a favore di un partito non pienamente «di
governo» ma, piuttosto e ancora, «di lotta e di governo». Di un
partito, cioè, che, pur di fronte a un governo espressione della
propria affermazione elettorale, ritiene comunque di dover mantenere
spazi di manovra sufficienti per dare voce a sensibilità, interessi,
componenti sociali che consideri non sufficientemente rappresentati
nell’azione dell’esecutivo e per promuovere, quindi, misure e
strategie diverse e, se necessario, alternative a quelle sostenute
dal governo.
Tornando al punto di partenza, cioè al dibattito
attualmente in corso in seno al Pd, non si può evitare di rilevare
che questa posizione contrasta con la logica delle primarie, parte
costitutiva, come spesso si dice, del DNA del partito. Primarie
aperte a tutti gli elettori, con milioni di votanti, si giustificano
ed hanno senso perché la posta in gioco è il ruolo di candidato
premier. Se si trattasse solo di eleggere il segretario del partito,
basterebbero e si dovrebbero chiamare al voto solo gli iscritti.
Del
resto, l’errore che, solo pochi mesi fa, finì per costare il
governo a Enrico Letta non fu proprio quello di non presentarsi alle
primarie, pensando di poter tenere l’esecutivo e il proprio ruolo
di premier al di fuori della contesa, e di non comprendere, o
accettare, che in palio, indissolubilmente legata alla carica di
segretario del partito, c’era la guida del governo?
E, andando
un poco più indietro negli anni, non è forse vero che una fragilità
di fondo dei due governi di Romano Prodi fu il fatto che egli era
solo il premier e non anche il capo del suo partito?
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