Corriere della Sera 21/09/14
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Le riforme vanno fatte osservando i
problemi concreti della società e non i semafori delle ideologie. E
in politica chi strilla di più non merita necessariamente di
ricevere maggiore attenzione. Queste celebri affermazioni di Tony
Blair forniscono un’utile bussola per valutare ciò che sta
accadendo in Italia sul fronte del lavoro.
Giovedì scorso il
Senato ha approvato in Commissione il disegno di legge delega noto
come Jobs act . Gli obiettivi sono molteplici e ambiziosi: estensione
e rafforzamento degli ammortizzatori sociali e delle politiche per
l’impiego, misure per l’occupazione femminile e la conciliazione
vita-lavoro, semplificazioni di norme e adempimenti, anche al fine di
attirare investimenti esteri. Il testo contiene inoltre una delega al
governo per introdurre un nuovo «contratto a tempo indeterminato a
tutele crescenti» che superi l’articolo 18 dello Statuto dei
Lavoratori.
Su quest’ultimo punto si è scatenata
l’opposizione dei sindacati, Cgil in testa, e di una parte del Pd.
In base a un riflesso quasi automatico, il semaforo ideologico della
vecchia sinistra ha subito acceso la luce rossa. L’idea di
ricalibrare le tutele per i nuovi assunti (senza toccare, si badi
bene, i contratti in essere) è stata bollata come un inaccettabile
attacco ai diritti fondamentali e alla stessa dignità dei
lavoratori. I sistemi europei che non prevedono il reintegro in caso
di licenziamento sono forse delle giungle?
Tutti hanno
ovviamente il diritto di esprimere (anche «strillando») la propria
opinione. Per chi è interessato alle buone riforme, la domanda da
porre è però molto semplice: il Jobs act affronta in modo serio i
problemi concreti dell’economia e della società italiana di oggi?
E fornisce risposte promettenti?
Com’è tristemente noto, il
dramma del nostro mercato del lavoro riguarda soprattutto i giovani:
due milioni e 300 mila senza occupazione e altrettanti «precari».
Su cento fortunati che trovano un lavoro subordinato, meno di 50
hanno un contratto a tempo indeterminato: in Francia e Germania sono
più di 60, nei Paesi nordici e in Gran Bretagna (dove ha governato
la Thatcher) sono più di 70. La stragrande maggioranza del mondo
giovanile non conosce né l’articolo 18 né la cassa integrazione.
I contratti atipici hanno scarsissime tutele in caso di mancato
rinnovo e conseguente disoccupazione. Meno di un quarto di chi ha un
lavoro dipendente riceve formazione professionale: in Germania e in
Gran Bretagna almeno la metà, in Danimarca il 75%. Non v’è da
stupirsi se i sondaggi internazionali rivelano che i nostri giovani
(soprattutto le donne) sono i più insicuri, i più scoraggiati e
pessimisti rispetto alle chance di carriera, i più angosciati dal
timore di perdere il posto e non trovarne un altro.
È a questi
problemi concreti che guarda il Jobs act , con un duplice
intento.
Da un lato, fare in modo che le imprese tornino ad
assumere con contratti «buoni», a tempo indeterminato, investendo
sulla formazione dei giovani. Dall’altro lato, assicurare a tutti
un pacchetto di sostegni in denaro e in servizi per far fronte agli
eventuali periodi di disoccupazione. La sequenza virtuosa su cui
scommette il Jobs act è questa: con un sistema di regole più
semplici e flessibili, le imprese assumeranno di più, e con
contratti molto più stabili di quelli attuali. Le tutele saranno
estese e rafforzate, ma in forme compatibili con la flessibilità,
anche in uscita: non riguarderanno più il singolo posto di lavoro,
bensì la transizione da un posto ad un altro, come avviene in tutti
i Paesi Ue. Se la sequenza si attiva, la riforma contribuirà a
risolvere il problema economico-sociale più drammatico che il nostro
Paese si trova ad affrontare dopo la ricostruzione post-bellica e la
crisi degli anni Settanta.
Il Jobs act che andrà preso in
votazione al Senato è lungi dall’essere perfetto. Per superare
l’articolo 18 basta una norma, mentre per allargare le tutele
occorre un lavoro difficile e paziente di progettazione
istituzionale, finanziaria, organizzativa. Una sinistra pragmatica e
responsabile incalzerebbe il governo su questo fronte, invece di
arroccarsi a difesa dello status quo. D’altro canto, un mondo
imprenditoriale che ha molto da guadagnare dalla riforma potrebbe ben
dare qualche segnale positivo: ad esempio confermando pubblicamente
che la scommessa del Jobs act non è un azzardo, che le imprese sono
pronte a fare la loro parte.
Ci aspettano settimane di
turbolenza politica e sociale. Il governo ascolti tutti, anche chi
strilla, e non esasperi lo scontro. Ma vada avanti per la sua strada:
il semaforo che conta è quello delle buone soluzioni ai problemi
reali degli italiani, non quello delle vecchie sirene ideologiche.
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