La lezione scozzese per certi aspetti è definitiva: per coltivare
grandi ambizioni occorre avere alle spalle una storia nazionale
autentica, non fittizia; una strategia di lungo respiro, fatta di
alleanze ma anche di rotture e totale autonomia, quella che la Lega non
ha mai davvero strappato rispetto a Berlusconi.
Finisce l’ubriacatura scozzese. Non a Glasgow o a
Londra, naturalmente, ma in giro per Europa ovunque partiti, partitini e
movimenti variamente indipendentisti o separatisti abbiano vissuto due
settimane di brividi, gridando ad alta voce che sulla scia degli
scozzesi il diritto delle piccole patrie tornava a imporsi dappertutto.
Alla fine, come è giusto, solo i protagonisti autentici della vicenda
britannica godranno i frutti del referendum. Chi si batteva per il No,
sperando di incassare le grandi promesse fatte da tutti i partiti di
Westminster in cambio della conferma dell’Unione. E chi si batteva per
il Sì, non solo per l’onore di una bella battaglia ma perché lì tutte le
coordinate della politica sono destinate a cambiare.
Tornano a casa (non si sa se da Edimburgo o da Amburgo, vista la
confusione di idee dello staff leghista) anche Salvini e Borghezio, che
con imbarazzante ritardo e smaccato strumentalismo hanno cercato di
rosicchiare un po’ di visibilità cavalcando il nazionalismo altrui.
La lezione scozzese per certi aspetti è definitiva: per coltivare
grandi ambizioni occorre avere alle spalle una storia nazionale
autentica, non fittizia; una strategia di lungo respiro, fatta di
alleanze (il parlamento di Edimburgo nacque quando Snp e Labour
lavoravano insieme) ma anche di rotture e totale autonomia, quella che
la Lega non ha mai davvero strappato rispetto a Berlusconi.
Infine, ci vuole il consenso vero: Salmond è cresciuto nel tempo da
esigua minoranza fino alla maggioranza assoluta dei seggi nel suo
parlamento; la Lega ha un quarto dei voti del Pd al Nord ed è il quarto o
al massimo il terzo partito anche in Lombardia e in Veneto, dove
governa.
Il che non significa che Salvini e i suoi vadano sottovalutati. È
vero che il Matteo leghista sia l’unico che a destra mostri una certa
vivacità e tenacia, facendogli credere di poter domani essere
l’antagonista del Matteo di centrosinistra. I sondaggi danno la Lega in
lenta costante crescita, ancora sull’onda del rancore anti europeo e
della violenta campagna contro gli immigrati. Chiaro: c’è una tensione
dichiarata tra Salvini e Maroni, e al momento di scegliere sulle
alleanze i leghisti saranno risucchiati indietro nel loro passato, a
trattative poco entusiasmanti con forzisti e alfaniani. Ma il Carroccio
può anche sperare di arrivare a quel momento non come la solita ruota di
scorta, bensì in una posizione di leadership.
Intendiamoci, stiamo ancora parlando di uno scenario di no-contest:
col Pd di Renzi non c’è gara e non ci sarà per un bel po’. Il fantasma
della rivolta fiscale, uno degli ingredienti del referendum scozzese,
non svanisce però mai una volta per tutte. E sempre lì si torna: va bene
la semplificazione, ma finché la vera e propria riduzione delle tasse
che è al primo punto del programma di governo non diventerà fatto
concreto, ci saranno pezzi d’Italia che si sentiranno derubati e anche
senza referendum si consumerà una scissione silenziosa più dolorosa
dello scontro tra Yes e No.
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