Corriere della Sera 26/09/14
Michele Ainis
Ci hanno messo un anno (meglio tardi
che mai),però alla fine i giudici di Palermo hanno sciolto la
riserva: Napolitano sarà testimone coatto al processo sulla
trattativa Stato-mafia. Anzi non coatto, volontario; e non è un
dettaglio da poco. Perché il Codice di procedura penale (articolo
205) distingue la posizione del capo dello Stato da quella degli
altri vertici delle nostre istituzioni.
Il presidente della
Consulta o il premier, come d’altronde i due presidenti delle
Camere, se rifiutano di deporre in un processo subiscono
l’accompagnamento coattivo; lui no, il codice di rito lo esclude
espressamente. Dunque la sua testimonianza è sempre spontanea, non
obbligatoria.
Ma evidentemente la Corte d’assise di Palermo
non si cura dei dettagli. Non se ne cura nemmeno il presidente, dal
momento che si è subito dichiarato disponibile. Potremmo
rallegrarcene: dopotutto stiamo celebrando il trionfo del principio
d’eguaglianza, con il primo cittadino trattato come tutti gli altri
cittadini. Ma invece no, c’è un retrogusto amaro in quest’ultima
vicenda. C’è il sospetto che la ricerca della verità sia
diventata ormai un pretesto, peraltro espresso nel peggior
giuridichese. Nella sua lettera del 31 ottobre scorso, Napolitano
aveva già messo nero su bianco ciò che aveva da dire; ma adesso i
giudici vogliono ascoltarlo per acquisire quel «contenuto
dichiarativo negativo», magari con l’aiuto d’un interprete. Come
a dire che la sua testimonianza scritta ai loro occhi suona
reticente, sicché vogliono sottoporla alla prova dell’orecchio.
Non che la verità non ci stia a cuore. Ne avremmo fame e sete, sulla
strage di piazza Fontana, su quella di Bologna, su Ustica, sul
delitto Moro, sulle troppe pagine stracciate della nostra storia
nazionale. La magistratura italiana fin qui non ci ha saziato, però
meglio il digiuno che un’abbuffata di bugie. E meglio l’apatia
che una guerra permanente fra poteri pubblici e privati, se ciascuno
usa la propria competenza per affermare la propria potenza. Succede
spesso, ora impiegando lo schermo dell’art. 18 per regolare i conti
con i sindacati, ora sventolando la privacy per ridurre al silenzio i
giornalisti, ora con l’abuso dei decreti e dei voti di fiducia per
addomesticare il Parlamento. Ma in Italia la vera rivoluzione sarebbe
questa: che ciascuno torni a fare il suo mestiere, senza impadronirsi
di quello altrui .
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