L’esperienza delle ultime guerre (Balcani, Golfo, Nord Africa,
Medio Oriente...) dimostra che gli interventi armati raramente hanno
dato buoni risultati, spesso l’azione militare internazionale ha
complicato le situazioni rendendole ingestibili e incandescenti. Sono
necessarie alleanze ad hoc per ogni scenario
Davanti alla tragica vicenda attuale del Medio Oriente, torna
ancora una volta il dilemma: come intervenire? Come usare la forza in
caso di gravi violazioni dei diritti umani?
Le dichiarazioni di papa Francesco sono chiare: «È lecito fermare
l’aggressore ingiusto». Il papa richiama la necessità di una decisione
legittima, non presa da una sola nazione ma negli appropriati fori (Onu)
dove ci si deve chiedere «come lo fermiamo?». Questa è la domanda: come
intervenire?
L’esperienza delle ultime guerre (Balcani, Golfo, Nord Africa, Medio
Oriente…) non è convincente: in rari casi le crisi gestite anche
mediante interventi armati hanno dato buoni risultati; in molti altri
l’azione militare internazionale ha complicato le situazioni rendendole
ingestibili e incandescenti. La stessa crisi attuale dell’Iraq discende
dal conflitto del 2003: inefficace e destabilizzante.
L’opinione resta divisa e i leader mondiali sono incerti. Gli appelli
di papa Francesco spingono ad esplorare soluzioni praticabili, senza
indulgere in qualsiasi “diritto all’indifferenza” ma nemmeno in
operazioni che peggiorino la situazione. Il dilemma si ripropone ogni
volta: l’arco di crisi che circonda l’Europa non può lasciare nessuno
impassibile.
Primo punto, “la politique d’abord”: emerge con chiarezza la
necessità di una politica che oggi non esiste ancora. Saltano anche in
Vicino Oriente le frontiere della Prima guerra mondiale (così come
accadde nei Balcani), si apre una fase di prolungata instabilità,
sorgono dei mostri totalitari, i confini si rivelano fragili, si
scatenano nazionalismi esacerbati, le minoranze sono oppresse, la
convivenza appare impossibile e – soprattutto – la crisi dell’Islam
produce nuovi soggetti sempre più violenti ed aggressivi: occorre dunque
urgentemente un di più di riflessione della politica internazionale che
sia in grado di gestire le crisi.
Se non esiste una “soluzione miracolosa”, come minimo ci si dia un
obiettivo a medio termine: distinguere le crisi (anche se vanno
considerate globalmente) per trovare sistemazioni temporanee ma
efficaci. Il problema è quale sia il luogo di tale condensazione
politica: l’Unione europea non è ancora pronta per fare vera politica
estera comune; l’Onu può essere bloccata dai veti; le nuove istituzioni
degli Stati emergenti sono restie a prendersi responsabilità globali.
Si tratta dunque di costituire “alleanze ad hoc” per ogni scenario,
superando pregiudizi e dissensi. In chiaro: se la Russia è una
controparte in Ucraina, certamente può essere un associato in Siria,
vista la sua influenza sul regime. Oppure: se vogliamo che Aleppo non
faccia la fine di Mosul, occorre coinvolgere Iran, Turchia e Stati del
Golfo che armano i soggetti più disparati; e così via.
In questo modo la politica riprende la sua funzione non ideologica:
essere creativa, proporre soluzioni possibili e ottenere quella massa
critica necessaria a spegnere fuochi. In altre parole: politica non per
l’immagine o lo schierarsi ma per rendersi utile.
Resta da riflettere sulla risposta delle democrazie occidentali
davanti alle crisi. Per noi una politica realmente efficace, per quanto
realista deve tener conto dei principi alla base dei nostri ordinamenti:
diritti umani e protezione dei deboli. In alcuni casi l’urgenza di
intervenire – anche militarmente in funzione di polizia internazionale –
è impellente. Questa potrebbe essere la soluzione per l’Iraq di oggi.
Sappiamo bene che il resto del mondo, compresi Brics, Mint, Ibsa o
Mist ecc., non ama la nostra dottrina dell’ingerenza umanitaria,
considerata uno strumento occidentale di intrusione nella sovranità
altrui. Tuttavia anche questi Stati, ormai protagonisti della scena
mondiale, sono preoccupati per le devastazioni senza controllo provocate
da estremismi e fanatismi di ogni risma. Nel mondo frammentato e
multipolare è in atto un contagio virtuale tra culture politiche e
religiose, che riguarda tutti. Le nuove potenze temono di pagarne il
prezzo, prima o poi.
La democrazia non si esporta, ma possiede una sua forza intrinseca di
contaminazione ed emulazione. La non-ingerenza non è sostenibile quando
i massacri avvengono sotto i nostri occhi e le vittime ci chiedono
aiuto; dal canto suo l’intervento deve essere portatore di una soluzione
politica lunga e possedere una qualche forma di legittimità
internazionale.
Occorre una nuova condivisa “dottrina dell’intervento” che medi tra
esigenze di sovranità e ingerenza umanitaria. Esperti, politici e
diplomatici occidentali degli stati maggiormente coinvolti nelle crisi e
delle potenze emergenti devono unire i loro sforzi per porre le basi di
un’ingerenza legittima e riconosciuta, sulla base di principi
comunemente accolti. Oggi serve una nuova Helsinki, non più per evitare
lo scontro bipolare e l’olocausto nucleare, ma per affrontare il caos
politico della globalizzazione che sotto i nostri occhi moltiplica le
stragi degli innocenti.
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