Corriere della Sera 20/09/14
Francesco Verderami
È davvero «l’ultima spiaggia»? E
per chi: per l’Italia, per Renzi o per i suoi oppositori? Nel
momento in cui la crisi economica incrocia (ancora una volta) i
destini della politica, è come se il premier invitasse i suoi
avversari ad uscire allo scoperto. L’ha fatto l’altro giorno alle
Camere, evocando le elezioni anticipate: ma ciò che è parso un
desiderio nascosto dietro una minaccia, in realtà era un messaggio i
cui destinatari stanno dentro e fuori il Parlamento, e ai quali Renzi
ha tenuto a dire che non esistono alternative al suo governo, che in
questa legislatura dopo di lui c’è solo il voto.
È la
sfida lanciata a chi «pensa a una operazione tipo Monti e immagina
una soluzione di riserva», concetto che il leader democrat ha
esplicitato davanti alla segreteria del suo partito. Se nessuno al
Nazareno è stato colto di sorpresa da un’affermazione tanto grave,
è perché «nel Pd c’è chi discute di questa eventualità», come
rivela Civati, che nel suo racconto — pur senza farne esplicito
riferimento — sembra alludere a certi incontri conviviali della
minoranza dem, organizzati da vecchie glorie della «ditta». Il tema
è così noto agli abitanti del Palazzo, che c’è un’assoluta
coincidenza tra la ricostruzione del dirigente pd e quella del
capogruppo ncd Sacconi, visto che entrambi raccontano persino gli
stessi dettagli della stessa storia, e il nome su cui si farebbe
affidamento: «Quello del governatore di Bankitalia, Visco», a cui
Bersani meditava di offrire il ministero dell’Economia, se fosse
andato a Palazzo Chigi.
Sia chiaro, nessuno in Parlamento
avrebbe oggi la forza per realizzare una simile operazione, che
pertanto non sarebbe frutto di un processo politico ma conseguenza
dell’ennesima crisi di sistema, a cui aprire intanto un varco —
smontando l’idea renziana che «questo governo è per l’Italia
l’ultima spiaggia» — così da costruire una rete di protezione
per portarla a compimento. Ora si capisce meglio la battaglia del
premier per il «primato della politica» contro i «tecnici che non
hanno mai azzeccato nulla», e si delineano i profili dei «gufi» a
cui fa spesso riferimento. In fondo, per gli avversari del
rottamatore questa sarebbe l’unica possibilità per rottamarlo, per
farne una breve parentesi servita a fermare il populismo
grillino.
Ed ecco che davanti alla sfida del premier — secondo
il quale dopo il suo governo ci sono solo le elezioni — nel Pd
iniziano a fiorire i distinguo. Cuperlo, per esempio, dice che
«ragionevolmente dopo Matteo c’è solo il voto, anche se la
politica a volte ti mette di fronte a degli scarti imprevedibili». E
Fassina, dal canto suo, sostiene di lavorare «per cambiare l’agenda
di governo piuttosto che cambiare governo. Anche perché in un quadro
europeo difficilissimo, una nostra giostra elettorale rischierebbe di
far saltare tutto».
Che si tratti quindi di un’ultima
spiaggia è evidente. Bisogna capire per chi, perché Renzi dopo aver
vinto le primarie, preso il governo, imposto la riforma del Senato e
la riforma elettorale, si approssima alla riforma del lavoro con lo
stesso «metodo», tanto da aver fatto venire le vertigini ai giovani
esponenti della segreteria pd l’altro giorno: «La difesa
dell’articolo 18 è uno slogan del passato e chi non lo capisce è
un retrogrado. Questa sarà anche la nostra risposta all’Europa e a
chi vorrebbe fermarci».
Ecco la sfida, che non sfocia nella
minaccia di elezioni anticipate, anche perché se Renzi avesse la
bacchetta magica fisserebbe questa situazione politica anche oltre il
2018: sta al governo con un alleato leale e con cui ha stabilito un
solido rapporto, alla sua sinistra ha un’area radicale declinante e
in cerca di apparentamento, all’opposizione un «comico
impresentabile», e un avversario che gli fa da sponda e (per ora)
nemmeno candidabile. Perciò se qualcuno «pensa a una soluzione di
riserva» e vuol tornare ai «tecnici» deve solo dirlo. Gli effetti
sarebbero devastanti.
Il premier si sente al sicuro, e c’è la
prova poi che non mira alle elezioni il prossimo anno, se è vero che
— come sottolinea il coordinatore di Ncd, Quagliariello — «la
sua idea di affrontare subito la riforma del sistema di voto non
avvicina le urne, bensì le allontana. Perché l’Italicum è
costruito per un solo ramo del Parlamento e dunque senza la modifica
del Senato non si potrebbe applicare».
L’accelerazione semmai
è stata (anche) un modo per assecondare le richieste del Colle: è
noto infatti che Napolitano attende il varo della nuova legge
elettorale e un altro voto sulla riforma costituzionale per
considerare raggiunto l’obiettivo del suo mandato, e auspica che
tutto ciò avvenga entro fine anno. A quel punto sceglierà se e
quando dichiarare conclusa la sua missione. A quel punto inizierà
un’altra sfida di sistema: al Quirinale salirà un «politico» o
un «tecnico»?
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