Il premier si lancia, si butta, ci prova. Ci mette la faccia, come
ama dire, e ha l’imprudenza e l’impudenza di chi non si cura delle
strizzatine d’occhio altrui perché ha cose più importanti da fare
L’inglese di Matteo Renzi è diventato il tormentone di
fine estate: sulla rete pullulano prese in giro e fotomontaggi,
“traduzioni” splendidamente incomprensibli dei suoi discorsi americani e
sberleffi feroci. Persino Michele Santoro, fra i tanti temi a
disposizione per inaugurare la nuova stagione di Servizio pubblico,
ha preferito all’articolo 18 o alla trattativa stato-mafia l’ironia
sulle competenze linguistiche del nostro presidente del Consiglio.
Il rapporto fra gli italiani e l’inglese è complesso: non lo parla
praticamente nessuno, pochi lo capiscono, e tuttavia non c’è insegna di
negozio o cartellone pubblicitario o titolo di film che non ricorra a
parole o espressioni che dell’inglese vorrebbero avere, se non il
vocabolario o la sintassi, quantomeno il sapore.
Siamo talmente provinciali da ricorrere compulsivamente e a casaccio ad una lingua che non conosciamo, nel tentativo di essere cool, ma nello stesso tempo inorridiamo agli strafalcioni altrui inforcando gli occhialini di un professore di Oxford.
Quello che i nostri provinciali non sanno è che l’inglese non esiste. Esiste il Queen’s English
– che è una via di mezzo fra una lingua morta e un elegante gioco di
società – e poi esistono i mille inglesi parlati in decine e decine di
paesi passati attraverso l’amministrazione di Londra.
E chiunque sia stato in America anche soltanto per un quarto d’ora,
sa che laggiù l’inglese ognuno lo parla e lo pronuncia come gli pare:
gli afroamericani, gli orientali, i latinos, i polacchi, i
pakistani, gli italiani e tutti gli altri popoli che vivono e prosperano
negli Stati Uniti si sono impadroniti dell’inglese ciascuno a modo
proprio: usandolo ogni giorno lo deformano, e lo possono usare proprio
perché lo possono deformare a piacimento.
La forza straordinaria della lingua inglese non sta soltanto nella
sua disarmante semplicità strutturale, ma anche nella variabilità
pressoché infinita delle forme di pronuncia: e il risultato è che tutto
il mondo parla inglese, ma ognuno parla un “suo” inglese. Qualche volta
non ci si capisce, quasi sempre invece sì. L’importante è parlarlo –
proprio come ha fatto Matteo Renzi (gli americani faticano a concepire
che qualcuno non sappia l’inglese, ma non si curano minimamente degli
strafalcioni dell’interlocutore).
Nella performance del nostro presidente del consiglio c’è però
qualcosa di più, qualcosa di specificamente renziano. Renzi parla
inglese come governa. Si lancia, si butta, ci prova. Ci mette la faccia,
come ama dire, e ha l’imprudenza e l’impudenza di chi non si cura delle
strizzatine d’occhio altrui perché ha cose più importanti da fare.
Renzi non è un velleitario: è anzi estremamente realista (e forse per
questo spiazza ogni volta avversari e commentatori). Ma si fa guidare,
caparbiamente, dall’ottimismo della volontà: cioè dalla convinzione che
si comincia a raggiungere un risultato soltanto quando ci si convince di
poterlo raggiungere, che il merito conta più del metodo, che lamentarsi
è un altro modo per conservare l’esistente, e che la perfezione – il
dio che governa il pessimismo della ragione – non è di questo mondo.
I professionisti della tartina parlano un inglese impeccabile: Renzi
invece si arrangia come può, come quei bambini che si abbandonano a
monologhi senza fine molto prima di aver imparato a parlare, e in questo
modo non comunica soltanto i contenuti di un discorso, ma anche, e
forse soprattutto, la volontà di non fermarsi davanti a nessun ostacolo –
inclusi i propri limiti. Parafrasando un recente, famosissimo
editoriale si potrebbe dunque concludere che Renzi è il miglior amico di
se stesso.
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